Rigoletto • Armiliato
- Lorenzo Giovati
- 29 ott
- Tempo di lettura: 3 min
Milano, Teatro alla Scala. 22 Ottobre 2025.
Basta scrivere la parola Rigoletto sul cartellone perché il Teatro alla Scala di Milano si trasformi in un’attrazione per turisti. È questa l’impressione lasciata dalla quinta recita del capolavoro verdiano, recentemente in scena al Piermarini: un’operazione più commerciale, che artistica, lontana dalla serietà e dall’autorevolezza che ci si aspetterebbe da un teatro di rango.
La qualità della proposta è apparsa modesta, non solo per la resa musicale, ma per l’intera impostazione dello spettacolo, che è parso indulgere a tutti gli errori di tradizione più triti: acuti non scritti da Verdi, ma eseguiti per compiacere il pubblico; sospensione della musica (anch’essa non prevista da Verdi) per consentire l’applauso dopo la “Donna è mobile”, nessuna ricerca filologica e nessuna volontà di proporre un Rigoletto pensato da un teatro di riferimento internazionale.
Non è ciò che ci si poteva aspettare anche da un professionista solido come il maestro Marco Armiliato, la cui direzione si è aperta con un orribile preludio mal gestito nelle dinamiche, segnato da ottoni la cui intonazione è stata facoltativa e da un suono instabile. Il primo atto è stato condotto con un discreto equilibrio tra buca e palcoscenico, ma privo di finezze, come il mancato crescendo del coro nella chiusura della prima scena. Un poco più curata è stata la scena tra Rigoletto e Gilda, culminata in un “Caro nome” delicato. Il secondo atto è invece risultato piatto e rumoroso, mentre il terzo atto ha finalmente mostrato maggiore attenzione al dettaglio e alla sfumatura, rappresentando il momento più riuscito della serata.
Molto deludente è risultata anche la prova dell’orchestra della Scala, salvata solo dalla sezione degli archi. Da dimenticare gli ottoni, i fiati poco sfumati e costantemente stentorei: il risultato complessivo è stato confuso e chiassoso.
Buona, seppur anch’essa tendenzialmente stentorea, la prova del coro preparato da Alberto Malazzi.
Sul palcoscenico, il livello ha raggiunto il discreto.
Amartuvshin Enkhbat è apparso a proprio agio nel ruolo di Rigoletto, che ha interpretato con una voce dal timbro caldo, avvolgente e di grande bellezza, suo principale punto di forza. È mancato tuttavia un approfondimento espressivo: l’intensità emotiva del personaggio non sempre è emersa, e qualche segno di stanchezza si è avvertito verso la fine. Una prova comunque buona.
Regula Mühlemann ha proposto una Gilda convincente per leggerezza vocale, esilità timbrica e grazia scenica, pur con qualche rischio negli acuti e una leggera imprecisione in un paio di passaggi (gli acuti, va ricordato, non scritti da Verdi, eccetto quelli del Caro nome). Nel complesso, una prova comunque pregevole.
A sostituire l’indisposto Dmitri Korchak (a sua volta sostituto di Vittorio Grigolo) è stato Galeano Salas, tenore dotato di una voce adatta al ruolo e molto intonata, ma non sempre gestita con sufficiente morbidezza e adeguata eleganza. Il suo canto, non di rado stentoreo, ha privato il Duca della necessaria patina di seduzione e di raffinatezza, rendendo l’interpretazione piuttosto monocorde.
Sempre valido Gianluca Buratto come Sparafucile, saldo nell’intonazione e dalla voce ben proiettata; altrettanto efficace la Maddalena di Martina Belli.
Tra i comprimari, tutti complessivamente efficaci, si sono distinti Carlotta Vichi come Giovanna, Fabrizio Beggi nei panni del Conte di Monterone, Wonjun Jo come Marullo, Pierluigi D’Aloia come Matteo Borsa, Xhieldo Hyseni nel ruolo del Conte di Ceprano, Désirée Giove come Contessa, Corrado Cappitta come Usciere di corte e María Martín Campos come Paggio della Duchessa.
Non bella, ma nemmeno priva di senso. Così si potrebbe sintetizzare la regia di Mario Martone, già vista in Scala alcuni anni fa. L’idea di far ruotare la casa del Duca, rivelando quella di Rigoletto, strutturalmente identica, ma più fatiscente, è una soluzione scenica che rimane interessante e che suggerisce un parallelismo sociale efficace. Tutto il resto, però, ha convinto poco: scene, movimenti e gestualità sono risultati spesso volgari e incoerenti, fino a spogliare l’opera della sua essenza, pur senza comprometterne completamente la leggibilità. Suggestiva la pioggia del terzo atto, ma inspiegabile il finale, trasformato in una carneficina per mano di Giovanna. Una scelta che ha svuotato il dramma del suo cuore emotivo, privando Rigoletto del valore tragico della perdita della figlia.
Un Rigoletto che, almeno sulla carta, poteva ambire a una proposta discreta, ma che nella sua realizzazione non si è mai sollevato oltre la mediocrità.
























