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Norma • Luisi

  • Lorenzo Giovati
  • 18 lug
  • Tempo di lettura: 7 min

Milano, Teatro alla Scala. 11 Luglio 2025.

Quando Riccardo Muti, nel 1990, riportò La Traviata sul palcoscenico del Teatro alla Scala dopo ventisei anni di assenza, fu bersaglio perfino di lettere minatorie. L’opera mancava dal 1964, anno in cui il pubblico scaligero aveva sonoramente contestato Herbert von Karajan e Mirella Freni, costringendoli a lasciare il teatro da un’uscita secondaria. Troppo vivo, allora, il ricordo della leggendaria edizione firmata da Carlo Maria Giulini con Maria Callas: un confronto inevitabile e, per molti, insostenibile. Eppure, nonostante il clima teso e l’accoglienza iniziale ostile, quella Traviata fu un trionfo. Ben diverso, per non dire opposto, è il caso del recente ritorno di Norma, assente dal 1977, quando Gavazzeni diresse Montserrat Caballé. Dopo quasi mezzo secolo, l’attesa era palpabile. Tuttavia, lo spettacolo non ha saputo andare oltre una grigia mediocrità. Viene quindi da chiedersi se, in fondo, non si sarebbe potuto attendere ancora, per cogliere meglio l’occasione.


Ad aggravare ulteriormente una situazione già non felicissima, alla recita dell’11 luglio si è verificata una doppia sostituzione dell’ultimo momento. Marina Rebeka, scritturata per il ruolo di Norma nel cast principale, ha annunciato la sera prima un’indisposizione che le impediva di andare in scena. Il ruolo è così passato a Marta Torbidoni, già prevista per la recita del 14 luglio. Ma ciò che ha davvero acceso la protesta è stato l’annuncio, poco prima dell’inizio dello spettacolo, dell’indisposizione anche del tenore Freddie De Tommaso (già assente l’8 luglio), sostituito da Antonio Poli, anche lui previsto per la data del 14 luglio. In sostanza, l’intero secondo cast (Torbidoni e Poli) è stato catapultato nella serata dell’11, scatenando l’indignazione di una parte del pubblico. A generare il malumore non è stata soltanto la delusione per la contemporanea assenza di due nomi di richiamo, ma soprattutto il sospetto, alimentato da altri casi analoghi in cui, in presenza di produzioni poco convincenti, alcuni cantanti si defilano dopo qualche recita, con buona pace del pubblico che ha pagato lautamente un biglietto per assistere ad un diverso spettacolo. Un’ipotesi certamente possibile, anche nel caso della Norma dell’altra sera, che tuttavia non sembra compatibile con la serietà professionale che è giustamente attribuita a Rebeka e a De Tommaso. Fatto sta che, al momento dell’annuncio, il nuovo sovrintendente Fortunato Ortombina è stato letteralmente travolto dai fischi e dalle urla di disapprovazione. Un loggionista ha cominciato a gridare “Vergogna!”, lamentando il fatto che le sostituzioni non fossero state segnalate già sulle locandine all’esterno del teatro. Per quanto il disappunto del pubblico potesse ritenersi legittimo, avendo il pubblico stesso il sacrosanto diritto di far sentire (in modo corretto) la sua voce, anche critica, è dispiaciuto comunque il trattamento, non molto sensibile, riservato al nome di Marta Torbidoni, contestata in pectore ancor prima che potesse cantare una sola nota e che potesse dar corpo e voce al pregevole senso di responsabilità da lei dimostrato nello scendere in scena inaspettatamente, salvando di fatto la recita.


E proprio Marta Torbidoni, chiamata a sostituire all’ultimo momento Marina Rebeka nel ruolo di Norma, ha invece colto l’occasione per offerire una prova di grande valore, oltre che di encomiabile carattere. Fin dall’ingresso in scena, ha mostrato la caratura dell’artista esperta, affrontando con ammirevole calma e sapiente controllo un Casta diva di qualità, pur nel contesto oggettivamente difficile di un pubblico che la attendeva al varco, in occasione, per di più, del suo debutto nel teatro più importante ed esigente d’Italia. Nonostante l’emozione comprensibile in una circostanza tanto delicata, la cantante ha saputo mantenere un’eleganza vocale costante. La voce, sempre ben intonata, presenta talvolta un vibrato piuttosto stretto, ma colpisce per la sua solidità e per un timbro pieno, ricco, luminoso, che sembra proiettarsi con naturalezza. Se la scrittura di Norma richiede levità, la vocalità di Marta Torbidoni è sembrata orientarsi in un'altra direzione, non belcantista. Non sorprende, quindi, che l’esito complessivo abbia evocato più da vicino Abigaille che Norma, tanto per l’impatto vocale, quanto per un certo gusto interpretativo, incline all’accento incisivo e guerriero. Tuttavia, pur in una scrittura non perfettamente congeniale, l’artista ha dimostrato solidità, tenuta e una presenza scenica sicura, giungendo a fine recita con voce tonica. Una Norma non impeccabile per limiti naturali della voce e soprattutto per una non piena appropriatezza dello stile, ma portata a termine con una professionalità che merita un plauso particolare.


Certamente una Norma diversa da quella tratteggiata da Marina Rebeka, ad esempio, nella recita  del 27 giugno scorso, trasmessa in diretta su Radio3 (pur con i limiti che una diffusione radiofonica può comportare). La Rebeka si è infatti confermata un’interprete di grande statura, vocalmente affine alla scrittura belcantista, grazie a una voce cristallina, duttile e capace di alleggerimenti raffinati nei punti più esposti della partitura. Anche per lei il confronto con il passato è stato tutt’altro che agevole: sin dall’inizio, è stata sottoposta a una forte pressione mediatica, con evocazioni ingombranti come quelle di Montserrat Caballé e Maria Callas, frutto dell’esercizio di una pratica comparativa che, pur mantenendo un suo senso, avendo come riferimento non reminiscenze nostalgiche, ma paradigmi che utile non dimenticare, approda ad un esito scontato, vedendo perdente qualsiasi cantrice odierna. La sua Norma, però, ha saputo affermarsi con personalità: guerriera nell’atteggiamento drammatico, ma saldamente ancorata a un gusto vocale coerente con la tradizione del belcanto. Un’interpretazione solida, consapevole e di notevole spessore.


Antonio Poli, subentrato a Freddie De Tommaso nel ruolo di Pollione, ha sostenuto complessivamente bene la parte, offrendo una prestazione, più generosa, che raffinata. Il timbro, di per sé gradevole e omogeneo, unito a una salda intonazione per tutta la recita, ha contribuito a un'esecuzione tecnicamente solida. Non ha convinto però la scelta di cantare pressoché tutto a piena voce, con un costante ricorso al forte che ha finito per appiattire ogni espressività. Il risultato è stato una prestazione corretta, ma priva di vere sfumature, che ha lasciato poco spazio alla varietà dinamica e al colore, rendendo l’interpretazione complessivamente monocorde.


Anche Il Pollione di Freddie De Tommaso (con riferimento alla recita del 27 giugno) ha peraltro convinto solo in parte. Il timbro, nitido e ben proiettato, unito a un fraseggio curato e a una discreta propensione all’alleggerimento sul fiato, hanno lasciato intravedere ottime intenzioni. Tuttavia, non sono mancati momenti in cui l’interpretazione ha finito per poggiarsi quasi esclusivamente su una vocalità stentorea, costantemente proiettata sul forte e spesso tesa a sottolineare gli acuti con crescendo poco sfumati. Una linea espressiva più muscolare, che si allontana da ciò che, in senso stretto, si intende per “bel canto”.


Michele Pertusi, nei panni di Oroveso, è invece tornato a offrire una vera e propria lezione di stile e di canto all’italiana. La sua è un’eleganza mai esibita, ma profondamente interiorizzata, che si traduce in un fraseggio scolpito e in un’emissione sempre nobile. La voce, ampia e ben timbrata, conserva quell’autorevolezza naturale che il personaggio richiede. Anche nei momenti più solenni, Pertusi ha dominato la scena con sobrietà e con una presenza magnetica, confermando, ancora una volta, la statura di un interprete che unisce maturità artistica e profonda intelligenza musicale.


Pregevolissima, nel complesso, la prestazione di Vasilisa Berzhanskaya nel ruolo di Adalgisa. La voce si è mostrata brunita, omogenea e sempre intonata, con una duttilità notevole che le ha permesso di muoversi con agilità, tanto nel registro grave, quanto in quello acuto. Tuttavia, anche per lei l’impressione generale non è risultata sempre pienamente convincente. A tratti, la voce è parsa leggermente ingolata, con una sonorità che tendeva a chiudersi e a perdere brillantezza. Anche l’interpretazione, pur corretta e misurata, è sembrata un poco algida. Resta comunque una prova solida, ben preparata e sorretta da qualità vocali innegabili.


Efficaci i ruoli minori: Laura Lolita Perešivana (Clotilde) e Paolo Antognetti (Flavio).


Solidissima è stata anche la prova di Fabio Luisi alla guida dei complessi scaligeri. Il direttore genovese ha offerto una lettura sobria e controllata, improntata a una raffinatezza che, se da un lato ha evitato ogni eccesso retorico, dall’altro lato è parsa in alcuni momenti persino troppo contenuta, quasi trattenuta. Eppure, grazie all’esperienza e al mestiere di cui Luisi dispone, la partitura belliniana (notoriamente esposta al rischio di monotonia per la sua scrittura ripetitiva) ha trovato una tenuta teatrale solida e una direzione sempre consapevole. Il direttore ha saputo dosare con equilibrio le tensioni, alternando pagine più slanciate a momenti di raccoglimento lirico, con scelte agogiche che sono sempre risultate coerenti con la logica dello spettacolo. I tempi, ora dilatati e sospesi, ora serrati e incalzanti, come nel “Guerra, guerra!”, hanno conferito varietà e vitalità all’intera esecuzione, senza mai forzare la mano sul piano espressivo. Una direzione molto efficace, che ha contribuito in modo determinante alla tenuta complessiva dello spettacolo.


Ottima è stata anche l’orchestra del Teatro alla Scala per volume, velluto e coesione. Non sempre impeccabile il coro preparato da Alberto Malazzi, soprattutto nella sezione femminile, che non ha brillato per qualità del suono.


La regia di Olivier Py ha infine meritato ogni singolo fischio ricevuto alla prima rappresentazione. L’idea di fondo parrebbe quella di accostare la figura di Norma a quella di Medea, collegamento che, per avere senso, dovrebbe nascere da una riflessione strutturata, non dall’infelice e poco allegorica trovata di piazzare uno specchio con la scritta “Medea” al centro del palcoscenico. A ciò si è aggiunto un pesante senso di déjà-vu: ancora una volta si è fatto ricorso all’idea del teatro nel teatro, con continue rotazioni di pedane che cambiavano, senza comprensibile motivo, l’orientamento scenico, in un susseguirsi di fondali che non contribuivano, né all’azione né alla coerenza drammatica. L’ambientazione è stata spostata – come ormai accade troppo spesso – in un altro contesto storico, in questo caso durante le Cinque Giornate di Milano: Pollione è diventato un ufficiale austriaco, Oroveso un nobile milanese. L’idea, all’inizio, con la facciata del teatro in scena, potrebbe persino apparire accettabile, seppur poco convincente. Ma con il procedere della vicenda, l’impianto drammaturgico si è sfaldato: le scene hanno perso senso, e l’opera si è ritrovata svuotata di ogni ancoraggio narrativo. La figura di Norma, ad esempio, che trae forza e identità proprio dal suo essere sacerdotessa druidica, se trasferita nella Milano ottocentesca, perde ogni coerenza e risulta senza identità. Quella di Py si è confermata dunque come l’ennesima elucubrazione autoreferenziale di un regista dal talento non palpabile, che piega l’opera alle sue visioni, senza offrirne alcuna chiave di lettura credibile. Un esercizio che non aggiunge nulla, ma anzi toglie, confonde, e decontestualizza gratuitamente.


Nel complesso, questo atteso ritorno di Norma alla Scala ha deluso. Buone, seppur non eccelse come ci si aspetterebbe, prove vocali e una direzione solida non sono bastate a compensare un allestimento scenico confuso e privo di senso. Un’occasione sprecata.


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