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La Cenerentola • Capuano

  • Lorenzo Giovati
  • 21 set
  • Tempo di lettura: 4 min

Milano, Teatro alla Scala. 13 Settembre 2025.

Approfittando di una lunga tournée dell’Orchestra del Teatro alla Scala, il Piermarini ha rinnovato anche quest’anno l’appuntamento che vede gli allievi dell’Accademia protagonisti di un titolo operistico, coinvolti, non soltanto sul palcoscenico, ma anche in buca. È un’iniziativa che ha assunto negli anni un ruolo sempre più centrale nella formazione dei giovani artisti, offrendo loro l’occasione di misurarsi con un teatro dalla storia e dal prestigio unici e, al tempo stesso, di confrontarsi con un pubblico esigente. Una sfida importante, che mette inevitabilmente in luce, tanto le potenzialità, quanto i limiti di voci e di strumenti ancora in via di maturazione, e che richiede a maggior ragione una cornice musicale e teatrale solida.


Lo spettacolo si è retto principalmente sulla viva direzione del maestro Gianluca Capuano, esperto del repertorio, ma comunque debuttante al Teatro alla Scala. La direzione è parsa sempre curata e attenta, spesso scandita da tempi serrati. Se da un lato ciò ha garantito energia e fluidità, dall’altro lato la velocità ha talvolta compromesso l’equilibrio con il palcoscenico, pur evitando il rischio di monotonia. Ne è risultata una lettura pensata, stilisticamente appropriata, capace di sottolineare anche i momenti più delicati, senza mai scadere nella fretta e complessivamente, quindi, molto gradevole. Altro merito di Capuano è stato quello di mantenere compatta e precisa l’orchestra dell’Accademia del Teatro alla Scala, che ha offerto un suono rotondo, intonato (anche negli ottoni) e stilisticamente curato. Un risultato che non ha fatto rimpiangere l’orchestra principale, frutto tanto della concertazione, quanto della preparazione degli allievi. Meno convincenti sono invece state alcune scelte timbriche: l’uso insistito del clavicembalo anche nelle arie, pur ottimamente suonato da Daniele di Teodoro, ha creato un effetto di ridondanza, mentre l’inserimento di strumenti estranei a Rossini, come il tamburo rullante e soprattutto i chimes (utilizzati durante l’incontro tra Angelina e Ramiro), ha introdotto un artificio “magico” che poco si addice a quest’opera, del tutto estranea a simili suggestioni, a differenza della versione disneyana.


Di livello notevole il Coro (in Cenerentola solo maschile) dell’Accademia del Teatro alla Scala, compatto, potente e preciso.


Il cast vocale, formato da allievi (eccetto uno), ha invece mostrato limiti diffusi, come scarsa attenzione al fraseggio, tendenza a cantare costantemente sul forte, abuso di falsetti, urletti e deformazioni timbriche, parole artificiosamente scandite, declamati e gesti caricati. Espedienti che, anziché valorizzare la brillantezza e l'ironia naturale di Rossini, hanno finito per deformarla verso una direzione caricaturale, rendendo alcuni momenti persino grotteschi.


Nei panni di Angelina si è posta Aya Wakizono, che ha offerto una prova solida: voce educata e interessante, ben condotta nel fraseggio e nella dizione, con un’interpretazione consapevole e adeguata al ruolo. La linea di canto, sempre corretta, si è mostrata omogenea nei registri, con agilità ben risolte e una musicalità sobria che ha evitato eccessi. Scenicamente ha reso con naturalezza la dolcezza e la dignità del personaggio, riuscendo a dare spessore, tanto al riserbo iniziale, quanto alla luminosità del finale.


Decisamente più problematico il Don Ramiro di Chuan Wang, caratterizzato da un timbro chiaro e sottile, poco consistente negli acuti e non sempre stabile nell’intonazione. Pur mostrando un certo impegno interpretativo, il cantante ha spesso faticato sul piano tecnico e si è addirittura complicato l’aria del secondo atto con acuti forzati e poco sonori. Una resa complessivamente insoddisfacente.


Non più convincente il Dandini di Sung-Hwan Damien Park, vocalmente poco adatto al ruolo, privo della necessaria autorevolezza e penalizzato da una caratterizzazione scenica eccessivamente caricata. Fin dall’aria d’esordio si è mosso come un giovane sfrontato, saltellando e dimenandosi, quando invece Dandini dovrebbe essere un servo che, nei panni del padrone, ostenta un’autorità ironica e parodistica.


Ben diverso, e per molti versi salvifico, l’apporto di Marco Filippo Romano, unico non allievo, che ha incarnato un Don Magnifico davvero magnifico. La sua esperienza nel repertorio rossiniano gli ha consentito di scolpire il personaggio con precisione assoluta: voce salda, proiezione ampia, attenzione estrema alla parola e comicità naturale, mai sopra le righe. Ogni inflessione e ogni gesto sono stati calibrati con intelligenza teatrale, trasformando ogni sua apparizione in un momento di autentico teatro. Romano ha per l’ennesima volta dimostrato come un personaggio buffo possa risultare esilarante senza mai perdere di dignità musicale e stilistica: una lezione preziosa per tutto il cast.


Efficace il duo delle sorellastre, con Maria Martin Campos (Clorinda) e Dilan Saka (Tisbe), entrambe dotate di buona vocalità e precisione d’intonazione, anche se talvolta eccessive nei movimenti scenici.


Solido e autorevole l’Alidoro di Huanhong Li che, a parte una sbavatura nell’aria del primo atto, ha sostenuto il ruolo con voce scura e ben tornita.


La regia di Jean-Pierre Ponnelle, ereditata dalla celebre incisione del maestro Claudio Abbado, resta un gioiello: raffinata, elegante, di grande bellezza scenografica e sempre godibile.


Una Cenerentola che ha trovato quindi i suoi cardini nella bacchetta di Capuano e nel Don Magnifico di Romano, capace di innalzare lo spettacolo a un livello che, senza di loro, difficilmente avrebbe retto. Nel complesso non un allestimento deludente, ma segnato da limiti che ne hanno impedito di lasciare un segno più duraturo.


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