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Missa Solemnis • Luisi

  • Lorenzo Giovati
  • 8 lug
  • Tempo di lettura: 3 min

Milano, Teatro alla Scala. 3 Luglio 2025.

Anche quest’anno, il Teatro alla Scala ha deciso di concludere la propria stagione sinfonica prima della pausa estiva con un capolavoro del repertorio sacro, confermando una linea che già nell’anno 2024 aveva portato all’esecuzione del Requiem mozartiano. Stavolta la scelta è ricaduta su uno dei vertici assoluti della musica sacra: la Missa solemnis op. 123 di Ludwig van Beethoven, una partitura monumentale, spesso considerata tra le più impervie e spiritualmente dense dell’intero repertorio.


Composta tra il 1819 e il 1823, in parallelo con l’ultima stagione creativa del compositore, quella delle sonate tarde e delle ultime sinfonie, la Missa, sebbene molto tradizionale nella forma, a differenza degli altri capolavori di Beethoven, si presenta come una riflessione profonda e personalissima sul senso della preghiera e sulla tensione dell’uomo verso l’assoluto. Benché destinata in origine a celebrare l’insediamento dell’arciduca Rodolfo come arcivescovo di Olmütz, l’opera superò ben presto ogni contesto cerimoniale, configurandosi come un manifesto spirituale e filosofico, più che come una vera messa da eseguire in chiesa. Beethoven stesso annotava sul manoscritto la celebre frase: "Von Herzen – Möge es wieder – zu Herzen gehen!" ("Dal cuore – possa tornare – al cuore").


Attesissimo era il ritorno alla Scala del maestro Tugan Sokhiev, annunciato alla guida dell’esecuzione. L’attesa è però stata vanificata da un’assenza determinata da motivi di salute. In sua sostituzione, il teatro ha chiamato il maestro Fabio Luisi, attualmente già impegnato sul palcoscenico milanese con Norma. Una sostituzione forse un poco scontata, ma comunque convincente. Luisi ha dimostrato di conoscere bene la partitura beethoveniana e, fin dal primo attacco del Kyrie, di possedere gli strumenti necessari per restituirne l’integrità formale e la profondità espressiva.

La sua direzione si è distinta per coerenza e per rigore, mantenendo costantemente il controllo del disegno generale. Il Kyrie ha trovato un respiro disteso, con un fraseggio attento e mai pesante. La solennità è emersa, non da un’esibizione di forza, ma dalla chiarezza delle linee e da una calibrata gestione delle masse. Più dinamico il Gloria, in cui l’esuberanza beethoveniana si è fatta travolgente, ma sempre ordinata: i fortissimi sono risultati energici e controllati.

Il Credo, pagina tra le più articolate e tematicamente dense, ha visto Luisi mantenere la tensione della partitura, esaltando il contrappunto e costruendo un flusso musicale solido e compatto. La chiarezza dell’articolazione e la nitidezza degli ingressi, soprattutto nei fugati, hanno dimostrato una cura del dettaglio unita a un forte senso architettonico.

Nelle sezioni conclusive della Missa (Sanctus, Benedictus e Agnus Dei) la tensione costruita fin lì si è in parte appiattita. Il disegno complessivo è apparso meno incisivo, più statico e talvolta ripetitivo, con un affievolimento della forza propulsiva che aveva sostenuto le prime tre parti. L’impressione è stata quella di una tenuta formale impeccabile, certo, ma meno capace di sorprendere. Pur senza mai perdere in rigore o controllo, la direzione di Luisi ha qui mostrato un margine di stanchezza espressiva, restando sì sorvegliata, ma meno coinvolgente.


Notevole è stata la prova dell’Orchestra del Teatro alla Scala, che ha restituito con lucidità l’enorme varietà di colori e di dinamiche della partitura. Gli archi hanno suonato con precisione, sostenuti da legni eleganti e sempre ben dosati. Gli ottoni, così cruciali in Beethoven, si sono mostrati incisivi, anche se non sempre impeccabili per qualità del suono, soprattutto nelle sezioni più dense del Credo e del Sanctus. Ma il momento più toccante è senz’altro giunto con il Benedictus, grazie all’intervento solistico del primo violino Francesco Manara: un’esecuzione lirica, di grande concentrazione, che ha saputo proiettare la cantabilità beethoveniana in una dimensione intima e lirica.


Il Coro del Teatro alla Scala, preparato con grande cura da Alberto Malazzi, è stato protagonista di una prestazione di altissimo livello: omogeneo, duttile, potente nei fortissimi, ma capace di scolpire anche le dinamiche più delicate. L’unica lieve riserva riguarda la sezione dei soprani, che in alcuni momenti ha mostrato una qualità del suono meno uniforme, specie nelle sezioni di maggiore tensione acuta. Nulla, tuttavia, che abbia intaccato la qualità complessiva dell'esecuzione.


Convincente il quartetto solistico. Il tenore tedesco Sebastian Kohlhepp ha colpito per il timbro luminoso e per la morbidezza dell’emissione, specie nei passaggi più lirici. Hanno Müller-Brachmann ha offerto una voce di basso autorevole, saldo nell’intonazione e profondo nel colore. Elizabeth DeShong ha mostrato un controllo notevole della linea, un timbro pieno e ben proiettato, rendendo con intensità le sezioni del mezzosoprano più drammatiche. Rosa Feola, infine, ha cantato con chiarezza e con precisione, mostrando una buona padronanza tecnica e una linea vocale sempre ben sostenuta: qualche acuto non è parso sempre lieve, ma l’impressione generale è stata quella di una vocalità solida e affidabile.


Il pubblico ha seguito con grande concentrazione tutta la serata, in religioso silenzio, restituendo con lunghi applausi l’intensità dell’esperienza vissuta. La Missa solemnis resta un’impresa complessa e rischiosa, ma in questa occasione ha trovato interpreti capaci.


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