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Tosca • Croci

  • Lorenzo Giovati
  • 26 lug
  • Tempo di lettura: 5 min

Torre del Lago, Gran Teatro Puccini. 18 Luglio 2025.

Come accade per Verdi a Parma, anche Torre del Lago rende ogni anno omaggio al suo illustre concittadino con il Festival Puccini, che propone una densa stagione di spettacoli, quest’anno ciascuno affidato a cast diversi e a nuove combinazioni artistiche. L’edizione 2025 si è aperta con Tosca, uno dei titoli più amati e rappresentati di Giacomo Puccini, affidato a una compagnia di sicuro richiamo. Eppure, ciò che sulla carta faceva presagire una serata memorabile, si è rivelato, alla prova dei fatti, un allestimento in parte deludente.


La responsabilità principale di questo esito è ricaduta sulla direzione orchestrale del maestro Giorgio Croci, che ha consegnato al pubblico un'interpretazione fiacca e impersonale. La sua conduzione scolastica ha svuotato la partitura di quella tensione teatrale di cui invece è ricchissima, affievolendone il respiro, appiattendone le sfumature, smussandone le asprezze e, soprattutto, spegnendone il dramma, la sensualità, l’eroismo, il senso di prevaricazione, contrapposto gli accenti dolenti. Non si è trattato semplicemente di una direzione scolastica, ma anche di una lettura non felice nella scelta dei tempi, non di rado ingiustificatamente dilatati, tanto da generare in alcuni casi difficoltà ai cantanti, e nella calibratura del rapporto tra buca e palcoscenico. La tensione scenica, invece di crescere e di trovare sbocco nei grandi snodi musicali ha finito per  spegnersi  in un languore stanco. A tutto ciò si è aggiunta una gestione del suono molto approssimativa, sia nelle dinamiche, sia negli attacchi, sia nel fraseggio orchestrale. Il suono dell’orchestra è risultato impalpabile, debole, privo di profondità e di articolazione. Il risultato è stato quello di una Tosca senz'anima. E non è poco, anzi è tantissimo. 


Il maestro Croci nemmeno ha potuto nemmeno contare sulla qualità dell'orchestra, che è parsa molto deludente, offrendo una costante sensazione di precarietà negli attacchi, nelle intonazioni, nel velluto sonoro. Se ne sono in parte salvati gli archi, che, pur mantenendo un certo ordine interno, hanno però sofferto di una dinamica troppo dimessa.


Deludente è stato anche il contributo del Coro del Festival Puccini, preparato da Marco Faelli, niente affatto eccelso per volume, mordente e qualità timbrica. Persino il Coro di voci bianche, spesso elemento di freschezza, è risultato poco più che scolastico.


Sul palcoscenico, fortunatamente, la situazione è apparsa migliore, anche se non sempre pienamente all’altezza delle aspettative. 

Aleksandra Kurzak  ha proposto una Tosca intensa, dotata di temperamento e di ottima presenza scenica. In alcuni passaggi ha forse ecceduto in foga, lasciando affiorare un declamato un poco troppo accentuato, che ha impoverito la musicalità a favore dell’urgenza teatrale. Nel terzo atto ha mostrato qualche segno di fatica, con un canto meno fluido e in alcuni passaggi di emissione un poco ventriloqua, ma la linea vocale è rimasta complessivamente solida. Ottimo il “Vissi d’arte”, soprattutto nell’incipit, eseguito con rara concentrazione. Gli acuti, talvolta fibrosi, sono stati comunque sempre intonati e a fuoco. In ogni caso, al di là dei dettagli, la sua è stata un’interpretazione di classe, che ha restituito una Tosca autentica e completa nelle sue sfumature psicologiche. 


Roberto Alagna, nel ruolo di Cavaradossi, ha messo in campo tutta la sua esperienza e il suo consumato mestiere di artista che ha calcato per decenni, con merito, i maggiori palcoscenici del mondo. La voce, naturalmente segnata dal tempo, conserva però una sua luce e una sua tenuta (soprattutto nel fiato), sorretta da un fraseggio intelligente e da una dizione nobile e scandita, quasi d'altri tempi, capace di dare senso a ogni parola, senza mai forzare la linea di canto. Il suo porgere poi è ancora caratterizzato da una qualità che oggi si fa merce sempre più rara: lo stile. Alcuni attacchi di vibrato sono stati evidenti e i tempi dilatati, imposti dalla direzione, no di rado hanno creato al cantante notevoli difficoltà, specie in “Qual occhio al mondo” e “E lucevan le stelle”, dove in più occasioni Alagna si è ritrovato sfasato rispetto all’orchestra. La sua prestazione resta però uno degli aspetti migliori della serata, anche solo per la sua capacità di comunicare attraverso il canto.


Maggiormente discutibile è stata invece la prova di Luca Salsi, tornato ancora una volta nei panni, ormai per lui quasi consueti, del barone Scarpia. E non certo, né per la mancanza di qualità vocale, né per una carenza di classe artistica, che non sono discutibili alla luce della sua già percorsa carriera, ma per il gusto interpretativo nell’occasione prescelto, in una serata che è stata caratterizzata dalla pressoché totale latitanza della guida orchestrale. E così, in questo contesto, Salsi ha scelto, assai più rispetto ad altre occasioni, di impostare quasi tutta la sua interpretazione su una dinamica perennemente orientata al forte e relativamente povera di sfumature, modellando un barone Scarpia assai poco nobile, in cui la brutalità fisica, di ispirazione verista, ha largamente prevalso sulla mellifluità e sulla perversione psicologica, che invece rappresentano la cifra ed il fascino del personaggio pucciniano. Ne è risultato un antagonista monolitico, spesso un poco rozzo nei toni e nei modi, sempre rabbioso e minaccioso, più incline allo scontro diretto che alla manipolazione subdola, che a tratti ha riportato alla memoria certe interpretazioni, anche di acclamate voci, di tempi risalenti in cui alla voce baritonale era consegnato il compito di impersonare il cattivo di turno. 


Corretti e funzionali gli altri comprimari: Francesco Napoleoni (Spoletta), Claudio Ottino (Sagrestano), Luciano Leoni (Angelotti), Paolo Pecchioli (Sciarrone), Omar Cepparolli (Carceriere) e Francesca Presepi (Un pastore).


Il comparto registico, affidato ad Alfonso Signorini, ha confermato l’impressione di una visione appassionata, ma priva di coerenza drammaturgica e di visione teatrale. La decisione di ambientare il primo atto sotto un cornicione con la scritta “Homo praevaricationem morte” è stato forse l’unico spunto simbolico della serata, peraltro volto ad offrire una chiave di lettura che qualunque spettatore minimamente avveduto poteva acquisire da solo, ma subito vanificato da una serie di scelte che hanno oscillato tra l’ingenuità e l’involontario grottesco. Ad esempio, l’immagine di Cavaradossi che dipinge la Madonna, non con un pennello, ma con un rullo da imbianchino è parsa una trovata involontariamente (si spera) ridicola; o il Te Deum che è culminato con un grande Ostensorio che si è sollevato al cielo come un’astronave, non è stato da meno. I costumi, molto simili a quelli della produzione dell'Opera di Roma, hanno contribuito alla sensazione di déjà-vu, privando la scena di ogni reale identità. Tosca vestita di azzurro e rosso, Scarpia con parrucca e bastone, Cavaradossi con ampie camicie bianche: nulla di nuovo. Il secondo atto ha ricalcato in tutto la scenografia del primo, limitandosi a riutilizzare il medesimo cornicione con la sola scritta “Praevaricationem”. Il terzo atto è poi forse stato il più incomprensibile: Castel Sant’Angelo è stato del tutto assente, o comunque privato di qualunque riferimento visivo. E così Tosca si è dovuta lanciare da una feritoia aperta nel muro. Durante “E lucevan le stelle” sono poi comparsi due ballerini che hanno inutilmente sottolineato un amore che stava volgendo al suo termine esistenziale, ma che, oltre ad incarnare l’ovvio, non hanno assolto ad alcuna reale funzione drammaturgica. 


In sintesi, una Tosca che è stata più un’occasione mancata, che un’occasione colta, in cui la pregevolissima caratura artistica del cast è stata in parte diluita in un scelte orchestrali e sceniche avrebbero potuto e dovuto essere ben più felici.  


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