Siegfried • Young
- Lorenzo Giovati
- 17 giu
- Tempo di lettura: 6 min
Aggiornamento: 21 giu
Milano, Teatro alla Scala. 9 Giugno 2025.
Quando Wagner lavorava a Siegfried, terza opera del suo Ring des Nibelungen, si trovò a un punto di svolta. Dopo aver completato il secondo atto, sentì la necessità di sospendere la scrittura. Erano anni intensi, attraversati da rivoluzioni e da trasformazioni interiori. Il poema sinfonico-vocale del Ring era troppo vasto, troppo impegnativo per non richiedere una pausa. Wagner mise quindi da parte Siegfried, per dedicarsi a due capolavori radicalmente diversi per forma e linguaggio: Tristan und Isolde e Die Meistersinger von Nürnberg. Quando riprese in mano Siegfried, dopo aver attraversato una vera e propria tempesta creativa, il suo modo di comporre era inevitabilmente cambiato. Non stupisce dunque che questa terza opera del ciclo, seconda giornata, sia forse la più completa del Ring: contiene l’eroismo e la scoperta, l’amore e il terrore, l’ingenuità e la disillusione. Tutti i motivi tematici e musicali ritornano, si intrecciano, si dissolvono, in un’opera che più di ogni altra riesce ad emozionare.
Alla Scala è così proseguito il monumentale progetto del Ring, dopo l’abbandono di Christian Thielemann, sotto la bacchetta di Simone Young (in alternanza ad Alexander Soddy). Per Siegfried, la direttrice australiana ha firmato una lettura solidissima, raffinata nel controllo e lucida nel disegno generale, anche se non sempre incisiva. È nel primo atto che si sono avvertite le maggiori perplessità: tempi spesso scorrevoli, se non addirittura frettolosi, e dinamiche piatte, poco scavate, hanno generato un senso di monotonia là dove avrebbe invece dovuto vibrare l’inquietudine. La scena dei tre enigmi con il Viandante, così densa di presagi e di ombre, ha risentito di un’assenza di mistero e di tensione. Il secondo atto ha mostrato una conduzione più attenta, con tempi ben calibrati, sebbene le dinamiche siano restate ancora piuttosto lineari. Notevole però è stata tutta la sezione del combattimento con Fafner e il successivo dialogo con l’uccellino: momenti in cui la Young è parsa trovare un equilibrio più vivido tra narrazione e colore orchestrale. Il vero apice è arrivato però nel terzo atto, a partire dal Vorspiel, reso con travolgente forza drammatica. Qui ogni passaggio è stato plasmato con cura: l’incontro tra Wotan ed Erda è stato teso, denso, e il risveglio di Brünnhilde, vertice emotivo dell’opera, ha acquistato finalmente profondità. Come ironizzava Toscanini: «Nel tempo che Wagner impiega a svegliare Brünnhilde, in un’opera di Verdi sarebbero già nati tre figli», ma proprio questa lentezza, questa sospensione incantata, è stata valorizzata da Simone Young, che ha saputo restituire al duetto “Ewig war ich” un crescendo emozionale coinvolgente, fino allo slancio finale.
Una direzione, dunque, meno emotivamente persuasiva rispetto a quelle dei precedenti capitoli, ma di grande lucidità e intelligenza strutturale, valorizzata da un'Orchestra del Teatro alla Scala in eccellente forma. Precisione, coesione, ottimo equilibrio tra le sezioni: in particolare, gli archi si sono distinti per intensità e per uniformità di suono, mentre gli ottoni hanno mantenuto saldezza anche nei momenti più ardui. Una menzione speciale merita Emanuele Urso, protagonista dell’impervio assolo di corno fuori scena: nitido, rotondo, dall’arco narrativo sensibile e musicale, perfettamente integrato nel clima della scena.
Sul piano vocale, Siegfried si è imposto come uno dei momenti più riusciti del ciclo scaligero, grazie a un cast di prim’ordine, omogeneo per qualità e stilisticamente ben coeso.
Klaus Florian Vogt, nel ruolo del protagonista, ha saputo disegnare un Siegfried dalla vocalità chiara, lontana dai tradizionali toni eroici a cui il ruolo spesso si associa. La sua è una voce che privilegia la linea lirica, fatta di luminosità e slancio, più che di volume. Ma questa scelta, tutt’altro che scontata, si è rivelata convincente: Vogt ha reso con straordinaria naturalezza il carattere adolescenziale, impulsivo e curioso dell’eroe wagneriano. Solo verso la fine del terzo atto si è percepito un leggero affaticamento, del tutto comprensibile data la gravosità del ruolo, ma sempre gestito con intelligenza e misura, senza cedimenti. L’impressione generale è stata quella di un Siegfried lirico, mai retorico, scolpito con freschezza e partecipazione.
Camilla Nylund, già applaudita come Brünnhilde nella Walküre, ha ribadito la sua maturità interpretativa nel dare vita a un personaggio che, in Siegfried, si risveglia alla vita e all’amore. La voce è ampia, generosa, ma mai sfocata: l’acuto leggermente incerto nel sostegno, ma non nell'intonazione, comunque penetrante, mentre il registro medio è ben sostenuto, ricco di sfumature. A convincere è soprattutto la cura con cui la Nylund lavora sul testo, sul colore della parola e sull’intensità del fraseggio.
Eccellente è stato il Mime di Wolfgang Ablinger-Sperrhacke, forse una delle prove più memorabili della serata. La voce, naturalmente tagliente, è stata gestita con una varietà espressiva sorprendente: mai caricaturale, sempre allusiva. Il secondo atto lo ha visto assoluto protagonista: ogni inflessione, ogni parola, ogni pausa erano musicalmente pensate e scenicamente vive.
Michael Volle ha vestito ancora i panni del Viandante, ovvero Wotan sotto mentite spoglie, con la consueta autorevolezza. È un Wotan crepuscolare, segnato dall’ineluttabilità del destino e dalla consapevolezza del fallimento. La voce di Volle conserva solidità e profondità, ma ciò che più colpisce è la sua capacità di dare senso teatrale a ogni parte. Il dialogo con Erda è stato un confronto sospeso tra orgoglio e sconfitta, e nel terzo atto la sua uscita di scena ha avuto un peso quasi solenne.
Solide anche le prove di Olafur Sigurdarson, un Alberich compatto e scuro, e di Ain Anger, la cui voce possente e risonante ha dato forma a un Fafner sinistro e ieratico.
Molto efficace, per timbro e dizione, la Erda di Christa Mayer, intensa e concentrata, capace di dominare la scena pur nel breve intervento.
Francesca Aspromonte, infine, ha affrontato con grazia e precisione la parte dell’uccellino: le sue frasi erano molto ben intonate, anche se talvolta mancava un poco di levità vocale.
Ma è stata forse la regia di David McVicar a imprimere a questo Siegfried una visione teatrale davvero completa. Il regista britannico ha proseguito coerentemente il disegno iniziato nel Rheingold, e dimostra ancora una volta di possedere una comprensione profonda del mondo wagneriano, affrontato con rispetto filologico, ma anche con chiarezza visiva e con forte carica simbolica. Il suo Siegfried è un’opera che non cerca effetti scenici, né letture forzate: ogni gesto, ogni immagine è legata alla drammaturgia interna della musica e alle didascalie minuziose di Wagner, sempre presenti nelle partiture del genio tedesco. McVicar ha costruito uno spazio scenico denso, che accoglie i personaggi come elementi viventi di un mito sospeso nel tempo, dove questo mondo cupo e decaduto sembra solo il frutto dell'agire umano. Il laboratorio di Mime nel primo atto è uno spazio di lavoro molto ben pensato (e molto aderente alla descrizione wagneriana): qui la regia si è distinta per rigore e per coerenza, con una cura maniacale per i dettagli (dalla forgiatura della spada, fatta con un martello che emanava una finta scintilla ad ogni colpo, fino alla costruzione dello spazio circostante, che sembrava un mondo sprofondato).
Il secondo atto ha introdotto invece un’ambientazione più naturalistica, ma allo stesso tempo astratta: l’ingresso di Fafner è reso attraverso un’idea semplicemente geniale, con il drago rappresentato da un gigantesco teschio semovente dotato di una lunga coda articolata. Il suo movimento era fluido, quasi inquietante, e la presenza scenica del mostro ha aumentato la tensione drammatica. L'idea dei tre scheletri longilinei, visivamente simili alle Grazie di Canova, suggerisce una presenza onirica e fragile, presagio di un mondo che sta per finire. Raffinatissimo anche l’inserimento dell’uccellino.
Il terzo atto è forse il più visionario: la cima della montagna dove Brünnhilde riposa è dominata da un’enorme maschera di pietra, il volto della Madre Terra, che si apre rivelando una grande mano aperta. Questo elemento visivo, già presente nella Walküre, ritorna qui, apparendo ancora stupefacente. La regia è stata esemplare, non solo per la sua potenza evocativa, ma per l’estrema precisione con cui ha accompagnato la musica: i tempi teatrali hanno rispettato il respiro delle frasi musicali, i cambi di scena sono organici, ogni immagine è stata costruita per fiorire insieme alla partitura. Fino al sipario, curatissimo, nulla è stato lasciato al caso. McVicar ha firmato così un Siegfried illustrativo e poetico, mai banale, in cui la complessità si è sciolta in una teatralità fluida e accessibile.
Uno spettacolo di grande bellezza, coerente nella visione artistica, sostenuto da una regia magistrale, da una compagnia vocale eccellente e da una direzione solida, pur se non del tutto memorabile.
La storia del Ring, però, non è ancora finita.