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L'Opera Seria • Rousset

  • Lorenzo Giovati
  • 11 apr
  • Tempo di lettura: 9 min

Milano, Teatro alla Scala. 6 Aprile 2025.

Di tutta la stagione, che spazia da Puccini a Verdi, da Wagner a Bellini, passando per Donizetti, Mozart e molti altri, il Teatro alla Scala ha inserito anche quest’anno, come ormai è divenuta consuetudine nelle sue ultime programmazioni, un titolo “dimenticato”. Un gesto che non è soltanto filologico, ma che è anche di apertura culturale, il quale arricchisce il cartellone e stimola lo spettatore a uscire dai binari consueti del grande repertorio. Nel 2025, per la prima volta nella storia del teatro (dunque per la prima volta in 435 stagioni), è andata in scena L’Opera Seria di Florian Leopold Gassmann, autore ancora oggi poco noto al grande pubblico. Di Gassmann non vanno solo riconosciuti i meriti musicali, posto che la sua scrittura mostra sorprendenti anticipazioni di stile che verranno poi codificate da Mozart, ma anche quelli storici: fu lui, infatti, a condurre Antonio Salieri alla corte di Vienna, dove quest’ultimo, alla morte di Gassmann, gli succedette nel ruolo di Kapellmeister.


L’opera seria, composta su libretto di Ranieri de’ Calzabigi, non è soltanto un’opera sull’opera, ma è una vera e propria autopsia dell'opera seria dell'epoca, il melodramma metastasiano, un genere solidissimo. Attraverso un impianto metateatrale sorprendentemente sofisticato, Gassmann e Calzabigi non si limitano a raccontare il dietro le quinte di una compagnia alle prese con la messa in scena di un nuovo dramma, l’Oranzebe, ma trasformano ogni elemento in una riflessione, mascherata da commedia, sul sistema produttivo, estetico e ideologico dell’opera seria. Il libretto, fitto di allusioni colte e di nomi parlanti, che cristallizzano i vizi tipici del teatro del tempo, costruisce un gioco teatrale a incastro, in cui i personaggi agiscono, sia come figure narrative, sia come funzioni strutturali del teatro stesso: l’impresario Fallito, come incarnazione del naufragio finanziario dietro ogni impresa teatrale, il poeta Delirio e il compositore Sospiro, come emblemi delle tensioni tra parola e musica, e i cantanti, Stonatrilla, Smorfiosa, Porporina, come sintesi dei capricci e delle rivalità che governano il palcoscenico.


Alla guida musicale di questa vera e propria riscoperta è stato chiamato il maestro Christophe Rousset, fine studioso del repertorio settecentesco. Rousset ha affrontato L’Opera Seria con intelligenza e con misura, optando per una lettura che ha privilegiato la chiarezza formale, la trasparenza delle linee e l’equilibrio agogico. Non ha cercato l’effetto, né ha calcato i contrasti, preferendo una conduzione elegante, sorvegliata, talvolta persino contenuta nelle dinamiche e nei tempi. Il risultato è stato certamente coerente e ben strutturato, capace di mettere in luce la varietà della scrittura e la fine ironia della partitura, anche se non particolarmente trascinante dal punto di vista teatrale in alcuni passaggi. Ne è emersa comunque una lettura interessante, fondata su un’idea chiara e rispettosa, che ha restituito con garbo l’originalità della scrittura di Gassmann.


Il merito della riuscita musicale complessiva va condiviso con l’Orchestra del Teatro alla Scala, qui in dialogo con l’ensemble Les Talens Lyriques, in una fusione perfettamente riuscita di sonorità e prassi esecutive storicamente informate. L’uso degli strumenti storici ha restituito una tessitura sonora limpida, cristallina, cesellata nei dettagli e sempre impeccabile nell’intonazione e nell’equilibrio tra le sezioni. Il risultato è stato un impasto strumentale trasparente, capace di accompagnare la voce senza mai sovrastarla, ma anzi esaltandone l’articolazione e il fraseggio.


Una menzione speciale spetta a Emmanuel Jacques al violoncello e a Valeria Montanari al clavicembalo, che hanno perfettamente accompagnato i recitativi. Straordinaria, per finezza e senso del gioco metateatrale, è stata la trovata musicale collocata nel cambio scena successivo al fallimento dell’Oranzebe: Valeria Montanari ha eseguito al clavicembalo la celebre Toccata in La maggiore di Pietro Domenico Paradisi, nota al grande pubblico per essere stata a lungo la sigla degli intervalli della Rai. Un gesto sottile, spiritoso e colto, che ha saputo legare l’ironia dell’opera a un’immediata memoria culturale italiana, suscitando un sorriso complice, ma senza mai rompere il tono dell’allestimento.


Il vero merito della riuscita complessiva dell’operazione va indubbiamente attribuito alla scelta di un cast vocale di altissimo livello, assemblato con grande cura e senso dell’equilibrio. L’omogeneità delle voci, la varietà dei caratteri e la versatilità scenica degli interpreti hanno contribuito in modo decisivo alla vivacità teatrale e alla resa musicale dell’opera. La Scala ha dimostrato in questo caso una notevole intelligenza nel selezionare cantanti in grado, non solo di affrontare brillantemente una scrittura articolata e virtuosistica, ma anche di aderire pienamente allo spirito ironico e parodico dell’opera.


Fra tutti ha dominato la scena Pietro Spagnoli, protagonista assoluto nel ruolo di Fallito, l’impresario contro cui ognuno, per un motivo o per l’altro, sembra avere un conto aperto. Figura bersaglio e perno involontario del caos teatrale, il suo personaggio si muove al centro della scena come catalizzatore di tensioni, fallimenti, ambizioni e vanità. La sua interpretazione ha incarnato con intelligenza, carisma e totale padronanza teatrale lo spirito dell’opera. Spagnoli ha unito una vocalità salda, sonora, perfettamente proiettata e duttile, a una presenza scenica travolgente, sempre calibrata nei tempi comici e impeccabile nella gestione del ritmo drammaturgico. La sua voce, cesellata nella dizione e nelle inflessioni, si è mossa con naturalezza tra recitativi e arie, sempre con una tenuta espressiva eccellente. Ma è stato soprattutto nella costruzione del personaggio che Spagnoli ha dato prova di un’intelligenza interpretativa di alto livello: il suo Fallito non è stato soltanto una figura buffa o caricaturale, ma un personaggio autentico, capace di suscitare empatia vera, senza mai rinunciare alla leggerezza e all’ironia. Il risultato è stato un personaggio memorabile, che ha sostenuto e guidato l’equilibrio comico dell’intero spettacolo. Difficilmente si sarebbe potuto immaginare un interprete più centrato e convincente per questo ruolo.


Non meno convincenti sono stati Mattia Olivieri e Giovanni Sala, nei rispettivi ruoli di Delirio (il poeta) e Sospiro (il compositore), due personaggi complementari per scrittura e per funzione teatrale, ma splendidamente affiatati nella costruzione del gioco scenico. Olivieri ha offerto una prova esuberante, animata da un canto rotondo e ben sostenuto, capace di adattarsi alle esigenze del ruolo. La sua interpretazione è risultata brillante e ricca di sfumature, soprattutto nelle inflessioni linguistiche e nella presenza scenica, sempre appropriata. Sala, dal canto suo, ha scelto un approccio più contenuto, ma decisamente efficace, basato su una vocalità precisa e uniforme in tutti i registri. La sua linea di canto, limpida e sempre ben intonata, ha restituito un Sospiro a tratti più riflessivo, quasi introverso, in netto contrasto con l’irruenza del poeta. La differenza di stile tra i due è parsa intenzionale e teatralmente azzeccata, contribuendo a costruire due figure distinte e ben definite, accomunate però da una qualità interpretativa di altissimo livello.


Tra le voci maschili si è distinto con merito anche Josh Lovell nel ruolo di Ritornello, il primo musico della compagnia. La sua voce luminosa, dal timbro chiaro e ben proiettato, si è imposta per eleganza e morbidezza. Lovell ha saputo combinare con intelligenza una linea vocale lirica con una presenza scenica flessibile, capace di passare con disinvoltura dal registro serio a quello ironico, mantenendo sempre un equilibrio perfetto tra espressione e controllo. Il personaggio è stato reso da Lovell con grande personalità e misura, evitando l’eccesso e puntando su dettagli calibrati, che hanno reso ogni suo intervento credibile e pertinente. Una prova di qualità.


Decisamente ben riuscita anche la composizione del cast femminile, affidata a tre voci di spessore, molto diverse per timbro e temperamento, ma perfettamente equilibrate all’interno del disegno teatrale dell’opera. Ognuna delle interpreti ha saputo rendere con precisione il proprio personaggio, trovando una sintesi efficace tra vocalità e caratterizzazione scenica, in una continua alternanza tra ironia, virtuosismo e finezza teatrale.

A spiccare, per naturale centralità e qualità dell’interpretazione, è stata Julie Fuchs nel ruolo di Stonatrilla, la “prima donna” per eccellenza, figura istrionica e autoriferita, ma vocalmente di altissimo profilo. La Fuchs ha tratteggiato con ironia e misura il lato capriccioso del personaggio, restituendo un ritratto ricco di sfumature. Sul piano vocale ha offerto una prestazione eccellente: la voce, luminosa, omogenea in tutti i registri, si è mossa con agilità impeccabile tra passaggi di coloratura e arie virtuosistiche, mantenendo sempre una linea di canto nitida e controllata. Il fraseggio, elegante e ben articolato, si è accompagnato a una presenza scenica incisiva, costruita con gesti sobri ma eloquenti.


Molto convincente è stata anche Serena Gamberoni nel ruolo di Porporina, caricata di intenzioni parodiche, ma vocalmente esigente. La Gamberoni ha affrontato la parte con grande consapevolezza stilistica, mostrando un'ottima padronanza della scrittura, che si muove ai margini del repertorio belcantistico, con continue richieste di agilità, articolazione e controllo. La voce, morbida e ben proiettata, ha trovato naturalezza nei passaggi di registro e nei recitativi, con un tono ironico ma sempre elegante. Sul piano scenico ha saputo mantenere un equilibrio perfetto tra teatralità e misura.


A completare il terzetto femminile è stata Andrea Carroll, interprete della sensibilissima Smorfiosa, personaggio teatrale “di nome e di fatto”. Carroll ha offerto una prova brillante, giocata sul filo di una sensibilità emotiva volutamente accentuata, con trovate sceniche sempre pertinenti e una costruzione drammaturgica sottile e ben calibrata. La voce, chiara e ben timbrata, ha mostrato una notevole flessibilità, affrontando con sicurezza tanto i momenti di agilità quanto i passaggi più lirici. La linea vocale si è mantenuta stabile e sicura, fatta eccezione per un assottigliamento del timbro nel registro acuto, con un’emissione sempre controllata e un uso sapiente delle dinamiche. La sua Smorfiosa ha unito alla grazia del canto una notevole capacità di reazione scenica, risultando sempre viva, presente, attentissima a ogni dettaglio del gioco teatrale.


Molto riuscita è risultata anche l’interpretazione di Alessio Arduini nel ruolo di Passagallo, il coreografo incaricato di coordinare la parte danzata dello spettacolo e di ricordare agli artisti l’importanza del balletto, come elemento imprescindibile del teatro musicale settecentesco. Arduini ha affrontato il ruolo con naturale disinvoltura, sfoggiando una voce baritonale scura, ben timbrata e perfettamente centrata nell’emissione, capace di emergere con nitidezza anche nei momenti più movimentati. Arduini ha dimostrando anche agilità fisica e precisione gestuale che hanno reso il personaggio credibile, spiritoso e perfettamente integrato nella macchina comica dell’opera.


Non da meno, per spirito e caratterizzazione, sono risultate le tre figure delle madri, Bragherona, Befana e Caverna, che irrompono nel camerino delle rispettive figlie dopo il disastro dell’Oranzebe, incarnando con spassosa intensità i tratti più grotteschi del mondo dell’opera. Affidate a tre personaggi en travesti, queste tre figure hanno aggiunto un ulteriore strato parodico alla costruzione drammaturgica, spingendo la satira fino al livello familiare e rivelando l’ambiente teatrale come un sistema chiuso, fatto di gerarchie, ambizioni, protezionismi e rivalità ereditate. Alberto Allegrezza (Bragherona), Lawrence Zazzo (Befana) e Filippo Mineccia (Caverna) hanno costruito tre personaggi ben distinti, ciascuno con una propria personalità scenica, ma tutti accomunati da una recitazione vivace, un lavoro accurato sulla parola e un uso intelligente del gesto.


Hanno completato il cast i quattro ballerini Marìa Martìn Campos, Dilan Saka, Haiyang Guo e Xhieldo Hyseni, tutti molto affiatati e dal buon volume vocale, oltre che tutti provenienti dall'Accademia del Teatro alla Scala.


Resta da sottolineare la regia di Laurent Pelly, vera protagonista visiva di questa produzione, capace di fondere ingegno scenico, leggerezza teatrale e una profondissima comprensione del meccanismo comico dell’opera. Pelly ha costruito un mondo perfettamente coerente con il tono satirico del libretto e con la varietà linguistica della partitura, immaginando uno spazio scenico sempre in bilico tra realtà e finzione. Nel primo atto il colpo d’occhio è stato sorprendente: una serie di porte bianche si aprono e si chiudono all’interno di una scatola nera fatta di pareti invisibili, come quinte impalpabili, creando un effetto illusionistico di moltiplicazione dello spazio. I personaggi entrano e spariscono senza attraversare visibilmente la scena. È un dispositivo scenico semplice nella concezione, ma straordinariamente efficace nella resa teatrale. Il secondo atto, pur con un impianto visivamente più lineare, mantiene una qualità scenica altissima: gli ambienti si fanno più concreti, le relazioni più esplicite, ma la regia non perde nulla in precisione gestuale e dinamismo. Il vero colpo di genio, tuttavia, arriva con il terzo atto, quando si mette in scena L’Oranzebe, la parodia interna di un’opera seria in stile metastasiano. Qui Pelly recupera l’estetica delle scene settecentesche dipinte, con quinte e fondali volutamente bidimensionali, figure simboliche, elefanti stilizzati e prospettive forzate. Il gusto antiquario è però sempre filtrato da una sottile ironia, mai pedante, che culmina nel crollo scenico, evento previsto dal libretto (una rarità nell'opera lirica che la trama interagisca con la regia) e reso dalla messinscena con un tempismo esilarante: la scena sullo sfondo si disintegra rovinosamente e interrompe l’opera nel momento di massima enfasi. Piccole trovate rendono questo impianto ancora più vivo e brillante: come il barrito di un elefante dipinto che, trasportato fuori scena, si “spaventa” per il crollo della scenografia, oppure la presenza continua di mimi in abiti neri, servitori della macchina teatrale, che entrano, escono, movimentano arredi e oggetti, rendendo visibile la finzione e facendone parte integrante della drammaturgia visiva. I costumi, anch’essi disegnati da Pelly, completano il quadro con gusto e misura: aderenti all’estetica settecentesca, ma pensati con un’attenzione moderna al dettaglio, al carattere, alla funzione. In un’opera che riflette sull’opera, anche il costume diventa racconto, espressione, ironia.


Con L’Opera Seria, il Teatro alla Scala ha dimostrato, non solo coraggio artistico, ma una visione culturale lungimirante e profondamente consapevole. Questa produzione non si è limitata a rispolverare un titolo raro, ma ha restituito piena vitalità a un’opera di straordinaria intelligenza drammaturgica, costruendo attorno ad essa un progetto scenico e musicale di assoluto rigore. Il lavoro di squadra tra interpreti, direttore, ensemble strumentale e regia ha dato forma a un risultato scenico compatto, coerente, sofisticato eppure godibilissimo. È con operazioni di questo livello che un grande teatro afferma il proprio ruolo non solo come custode della tradizione, ma come spazio vivo di pensiero e cultura.



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