Il Trovatore • Lanzillotta
- Lorenzo Giovati
- 7 nov
- Tempo di lettura: 4 min
Piacenza, Teatro Municipale. 31 Ottobre 2025.
A distanza di appena quarantotto ore da Rigoletto, il Teatro Municipale di Piacenza ha proseguito il progetto della “Trilogia popolare”, affidando allo stesso team musicale e registico anche Il Trovatore. Il pubblico ha nuovamente risposto con entusiasmo, segno di un’operazione che, nel suo complesso, continua a destare curiosità e a generare partecipazione. Tuttavia, pur nella sostanziale tenuta dello spettacolo, non sono mancate alcune ombre, in particolare sul versante interpretativo e registico.
Nel ruolo di Manrico è tornato Francesco Meli, che ha messo in campo ancora una volta la sua consueta intelligenza artistica. La sua voce, ancora piena e sonora, si è mossa con naturalezza entro una linea di canto flessibile e ben controllata, capace di alternare slanci eroici a momenti di più intimo raccoglimento. Il fraseggio, sempre curato, mostra quella fine intelligenza musicale che da anni contraddistingue il tenore genovese: ogni parola è scolpita con chiarezza, ogni accento nasce da una riflessione precisa sul senso drammatico della frase. Tuttavia, a fronte di questa padronanza, è parso indulgere in una certa baldanza sonora, come se la pienezza dello strumento vocale, ancora oggi invidiabile per proiezione e compattezza, lo spingesse a un uso talvolta eccessivo della forza. Il risultato è stato un Manrico vocalmente brillante, in cui la generosità del suono ha oscurato a tratti la dimensione più poetica e vulnerabile del personaggio. Un Manrico, tuttavia, complessivamente credibile.
Maria Novella Malfatti, tornata nei panni di Leonora dopo l’indisposizione che l’aveva tenuta lontana da Rigoletto, ha messo in mostra un timbro scuro e vellutato, con una notevole estensione e una gestione degli acuti di grande controllo, sempre risolti con morbidezza e senza incertezze d’intonazione. Il canto, pur corretto, è apparso però privo di fraseggio: ogni linea vocale era eseguita con uniformità, senza quella varietà di accenti e di inflessioni che distinguono una frase dall’altra e che danno vita al discorso musicale. Ne è derivato un ritratto vocalmente curato, ma emotivamente piatto, sorretto più dalla bella presenza scenica che da una reale introspezione del personaggio.
Ha lasciato un poco contrariati il silenzioso forfait di Luca Salsi nei panni del Conte di Luna, sostituito da Ernesto Petti, per poter cantare Tosca all’Opera di Roma, dopo che si era già data conferma del cast e i biglietti erano già stati venduti con quei nomi. Petti, subentrato nel ruolo del Conte di Luna, ha offerto una prova energica, sostenuta da un mezzo vocale imponente per volume e baldanza, seppure non sempre pulito nel timbro. Il fraseggio, pur ben articolato, ha spesso però privilegiato la pura efficienza della voce. In “Il balen del tuo sorriso”, ad esempio, gli acuti ben centrati sono restati però costantemente spinti. Un Conte vigoroso e di presa immediata, ma ancora lontano da una vera eleganza di linea e di interpretazione.
Ben più incisiva l’Azucena di Teresa Romano, che ha meritato l’autentico trionfo conferitole dal pubblico. Il mezzosoprano ha saputo dar vita a una figura dolente, capace di fondere una vocalità controllata e luminosa con un’intensità scenica di rara efficacia. La voce, ampia e duttile, si è mantenuta intonata e sonora in ogni registro, garantendo una prova notevolissima.
Ottimo anche Adolfo Corrado nei panni di Ferrando, solido, musicale, dotato di un timbro nobile e ben proiettato. Più che dignitosi Simone Fenotti (Ruiz), Greta Carlino (Ines, un po’ debole ma corretta), Omar Cepparolli (Un vecchio zingaro) e Lorenzo Sivelli (Un messo).
La direzione del maestro Francesco Lanzillotta si è fatta in Trovatore meno frenetica e più distesa. Lanzillotta ha curato maggiormente il rapporto con il palcoscenico, gestendo con equilibrio tutte le situazioni, da quelle più movimentate a quelle più delicate, sempre con serietà e attenzione. Ottima la gestione dei tempi, più respirati e coerenti rispetto al Rigoletto. Una direzione di ottimo mestiere che ha restituitopienamente il dramma verdiano.
L’Orchestra Sinfonica di Milano non ha brillato in questo caso per qualità della sezione dei violini, privi di velluto, né in quella dei fiati, privi di morbidezza. Il complesso è risultato efficace nel suo insieme, ma il dettaglio mediocre.
Il Coro del Teatro Municipale di Piacenza, pur preciso e compatto, non dispone del corpo sonoro necessario per imporsi nei grandi concertati, rimanendo spesso coperto dall’orchestra.
Sul versante scenico, la regia di Roberto Catalano ha deluso. Dopo Rigoletto, si poteva immaginare un’evoluzione o almeno un adattamento coerente alle diverse atmosfere del Trovatore; invece, si è assistito alla riproposizione molto simile all’allestimento precedente, fino al riutilizzo di elementi scenici già visti e del tutto estranei al contesto drammaturgico. I lampadari del Duca di Mantova riappaiono inspiegabilmente nella scena della prigionia di Manrico, trasformando il tragico spazio evocato da Ruiz in un ambiente privo di senso. Altrettando enigmatica è stata la figura che in Rigoletto impersonava “la maledizione” e che nel Trovatore non ha trovato una collocazione precisa. L’impianto visivo, di per sé elegante ma povero d’inventiva, si è ridotto a una neutralità priva di senso teatrale. Si è avuta la sensazione di trovarsi di fronte a una regia “intercambiabile”, applicabile indifferentemente a Rigoletto, Trovatore, Traviata, o persino a titoli di tutt’altra natura (Wozzeck, La vedova allegra, Evgenij Onegin…). Addirittura i costumi del coro nella scena di Azucena sembravano presi in prestito da una regia di Nabucco. È un’idea scenica senza coraggio e senza identità, che ha rivelato la mancanza di un autentico sguardo registico.
In definitiva, Il trovatore piacentino ha confermato la serietà complessiva del progetto, ma ha lasciato emergere più di un dubbio sulla sua reale coerenza artistica. Uno spettacolo che ha funzionato, ma che non ha appassionato.
























