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La Traviata • Lanzillotta

  • Lorenzo Giovati
  • 9 nov
  • Tempo di lettura: 4 min

Piacenza, Teatro Municipale. 2 Novembre 2025.

Con La Traviata si è conclusa la Trilogia popolare di Giuseppe Verdi proposta dal Teatro Municipale di Piacenza, un progetto che ha saputo restituire in modo coerente e interessante tre tra i più celebri titoli del cigno di Busseto (anche se nato alle Roncole), mantenendo un filo conduttore registico e visivo riconoscibile e coerente. Dopo Rigoletto e Il trovatore, l’approdo all’ultima tappa della trilogia ha rappresentato, non solo la chiusura di un percorso tematico, ma anche la sintesi più riuscita sul piano scenico e interpretativo.


La regia di Roberto Catalano si è rivelata la più compiuta e convincente dell’intera trilogia. Il suo approccio, pur restando fedele alla linea tradizionale, ha mostrato una sensibilità più aderente all’opera, trovando in Traviata una naturalezza e una misura che nei due titoli precedenti talvolta hanno difettato. L’idea della controfigura della morte, che aleggia come un presagio silenzioso, comparendo nei momenti di maggiore fragilità o presagio di fine, si è imposta come intuizione scenica di grande efficacia, sempre pregnante e coerente con il senso tragico del dramma. L’impianto scenico, comune alle tre produzioni, ha qui trovato una gestione più dinamica e meno prevedibile.


Sul piano musicale, Francesco Lanzillotta ha offerto una direzione solida e teatrale, caratterizzata dal rigore e dal senso del controllo che lo contraddistinguono. Il maestro ha guidato l’orchestra con gesto deciso e comunicativo, mantenendo sempre un perfetto equilibrio tra buca e palcoscenico. Ne è scaturita una lettura drammatica, coerente e priva di sbavature, anche se non sempre è riuscita a far emergere la gamma più sottile di sfumature emotive che la partitura verdiana racchiude. L’Orchestra Sinfonica di Milano, pur garantendo un’esecuzione complessivamente corretta, non ha brillato per qualità timbrica: gli archi, dal suono talvolta poco intonato, e alcuni fiati poco eleganti (in particolare l’oboe dell’“Addio del passato”, sgraziato e fuori stile) hanno limitato la possibilità di rendere pienamente l’intensità lirica e la trasparenza sonora di certe pagine.


Il trionfatore della serata (e della produzione in generale, dato che è stato l'unico che ha sostenuto tutti e tre i ruoli) è stato Francesco Meli, un Alfredo di altissima classe, che ha confermato ancora una volta la sua statura di interprete verdiano di riferimento. La voce, luminosa e omogenea in tutto il registro, ha mostrato una bellezza naturale e una duttilità esemplari, accompagnate da un fraseggio d’intelligenza rara, sempre curato nella parola e nella linea. Ogni accento è stato studiato, ogni inflessione aderente al testo, con un controllo musicale impeccabile. Nemmeno l’incidente del secondo atto (la rottura improvvisa di un tavolino, con conseguente caduta del tenore e momentanea perdita di concentrazione nella cabaletta “O mio rimorso") è riuscito a scalfire una prova che resta comunque di grande livello.


Meno persuasiva la Violetta di Maria Novella Malfatti, cantante dotata di un timbro gradevole, seppure un poco scuro per il ruolo, e di solida tecnica. La linea di canto, pur variata e controllata, non ha trovato però corrispondenza in un fraseggio sufficientemente articolato, e ha così finito per apparire priva di rilievo espressivo. Ne è risultata un’esecuzione curata, ma poco comunicativa, che non riusciva sempre a restituire il senso teatrale e psicologico del testo. Più riuscita la scena del secondo atto con Germont, dove l’intensità emotiva si è fatta sentire con maggiore spontaneità; meno incisivi, invece, il primo e il terzo atto, nei quali la cantante è parsa più concentrata sull’emissione che sulla cura delle emozioni. Una prestazione complessivamente accettabile, più eseguita, che interpretata.


Il Giorgio Germont di Luca Salsi è stato accolto da un applauso di affetto e di ammirazione già alla sortita. Il baritono parmigiano, reduce dalla Tosca in mondovisione dall’Opera di Roma che lo aveva costretto a rinunciare al Trovatore piacentino, ha confermato la sua forma vocale smagliante: la voce, salda e piena, conserva tutta la bellezza del timbro e la solidità tecnica che ne fanno uno dei maggiori interpreti odierni. Dal punto di vista interpretativo, però, Salsi ha proposto un Germont diverso dal consueto, più severo e quasi diffidente (per non scrivere schifato) nei confronti di Violetta, un personaggio più burbero, che nobile. Tale scelta ha attenuato la complessità morale del personaggio, privandolo di quella duplice dimensione di rigore borghese e di umana fragilità che ne fa una figura così ambigua e affascinante. Resta comunque una prova di altissimo livello, impeccabile sul piano tecnico e musicale.


Buono il contributo dei comprimari, tutti precisi e ben caratterizzati: Irene Savignano (Flora), Francesca Palitti (Annina), Simone Fenotti (Gastone), Davide Maria Sabatino (Douphol), Nicola Zambon (d’Obigny), Omar Cepparolli (Grenvil), Lorenzo Sivelli (Giuseppe) e Massimo Pagano (domestico di Flora/commissionario).


Il Coro del Teatro Municipale di Piacenza, più incisivo nei momenti fuoriscena che in quelli frontali, si è comunque confermato compatto e ben preparato, adeguato a sostenere una produzione di questa portata.


Con questa Traviata si chiude dunque un percorso che, nel suo insieme, si può considerare un progetto che ha unito coerenza artistica e qualità musicale, offrendo al pubblico una visione d’insieme delle tre opere più amate di Verdi. Se Rigoletto ha rappresentato l’apice per intensità e compiutezza, Traviata ne ha offerto un degno e raffinato epilogo, mentre Il trovatore ha completato il trittico con onestà e qualche riserva. Un’iniziativa, insomma, che ha saputo unire continuità e ricerca, dimostrando che anche nella tradizione è possibile trovare spazio per una prospettiva diversa.


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