Otello • Abbado
- Lorenzo Giovati
- 29 set
- Tempo di lettura: 5 min
Parma, Teatro Regio. 26 Settembre 2025.
È sempre una festa quando Parma apre il suo Festival Verdi, la rassegna dedicata al genio delle Roncole che ogni anno accende il cuore della città. Il tema di questa edizione, il rapporto fra Verdi e Shakespeare, ha un che di prevedibile, ma offre l’occasione di ritrovare tre titoli magnifici: Otello, Macbeth e Falstaff. Otello mancava da Parma da dieci anni e torna in una stagione che segna la venticinquesima edizione del Festival.
Il maestro Roberto Abbado ha confermato il suo mestiere consumato e la sua frequentazione sedimentata del repertorio verdiano. I grandi assiemi sono stati governati con energia e con nettezza ritmica, le quali hanno indubbiamente giovato al profilo pubblico del dramma e alla sua resa teatrale, determinando la definizione di un Otello a tutto tondo, approcciato senza rischi e solidamente ancorato alla sicura professionalità dei suoi interpreti. L’approccio un poco muscolare della conduzione ha però indubbiamente penalizzato la componente intimista dell’opera, che ne è in verità la reale essenza, la quale esige duttilità, sospensione, respiro, zone d’ombra, scavo emotivo. Il duetto d’amore che ha chiuso il primo atto, solo per fare un esempio, che costituisce un momento sublime di rifugio intimo dopo il susseguirsi di cambi di atmosfere (l’apprensione per l’approdo, il sollievo per la salvezza raggiunta, la celebrazione della vittoria bellica, la conseguente atmosfera di festa e l’ira per il comportamento di Cassio), è rimasto ben tenuto, ma emotivamente anonimo, come poco scanditi sono stati i precedenti passaggi emozionali che a quell’epilogo conducono. E così è stato per vari altri momenti dell’opera, in cui la vicenda pubblica si intreccia con l’evolversi di quella privata e interiore, non di rado sacrificata. Nel complesso, comunque, la prova direttoriale è stata certamente professionale, per molti aspetti forse più a fuoco di quella dello scorso anno in Macbeth, senza però riuscire a restituire la piena e cangiante complessità della partitura.
La Filarmonica Arturo Toscanini, per parte sua, ha suonato con buona compattezza e con precisione, palesando una sicura intesa con il maestro Abbado: archi intonati e coerenti nel profilo dinamico, fiati puntuali, percussioni ordinate. Gli ottoni non hanno mostrato un suono pienamente rotondo, ma la resa è stata comunque funzionale al disegno complessivo.
Sempre eccellente è stato poi il Coro, preparato dall’immancabile maestro Martino Faggiani, compatto e potente.
La resa orchestrale e direttoriale ha poi trovato un coerente contrappunto nella componente vocale, anch’essa complessivamente professionale, ma non particolarmente coinvolgente.
Fabio Sartori ha definito un Otello nel suo insieme sufficiente, confermandosi un serio professionista. La linea di canto è solida, gli acuti sono centrati con sicurezza, il registro medio conserva una buona presa teatrale. L’intento di lavorare sui chiaroscuri si avverte, ma fatica a tradursi in una vera tavolozza di mezze voci e di smorzature. L’accento ed il fraseggio tendono poi a rimanere sempre esteriori e la dinamica si adagia spesso sulla sicurezza della voce unica (anche in pagine come il Dio mi potevi o il finale, che chiederebbero una progressiva rarefazione del suono) che, se gli consente di non sbagliare, non gli permette però di spingersi oltre la superficie di un personaggio ben più complesso. Ne è scaturito un Moro da cliché, ordinato e a tratti apprezzabile, ma non di poco carente nella definizione della sfaccettatura psicologica e non sempre ben delineato.
Di segno opposto è stata la Desdemona di Mariangela Sicilia, validissima per controllo tecnico e per misura drammatica. Il timbro ha conservato, in tutta l’opera, una luce costante, l’intonazione è sempre stata accuratissima, il legato molto ben rifinito; i filati hanno sempre poggiato su un sostegno saldo, che le ha permesso mezzevoci realmente portate, mai sbiadite. La canzone del Salice e l’Ave Maria hanno dispiegato una gamma di chiaroscuri che non sono mai stati esibizione di tecnica, ma che sono sempre rimasti funzionali alla parola scenica. Nel duetto d’amore, la Sicilia, pur avendo a fianco un Otello assai distaccato vocalmente, ha offerto sensibilità al respiro del suo fraseggio, animando per parte sua la scena senza sovraccaricarla. Una prova indubbiamente eccellente e di notevole efficacia, la quale ha dimostrato ancora una volta come la padronanza tecnica e la sapienza del canto siano presupposti indispensabili su cui basare una credibile interpretazione verdiana, indipendentemente dalla più o meno marcata intensità della frequentazione artistica del repertorio.
Ariunbaatar Ganbaatar, nei panni di Jago, dispone di una voce bella, di una proiezione ampia e di un materiale vocale molto pregevole. Questi, essendo i suoi punti di forza, sono stati i fattori su cui egli ha intelligentemente basato la sua prestazione, senza chiedersi e senza offrire di più. Vi però che il personaggio di Jago richiede ben altro rispetto alla bella voce, al canto spiegato e al volume sontuoso. Richiede, invece, un possesso assoluto della parola, una sapienza nell’arte del porgerla, un dosaggio sottile nel tratteggio del personaggio, che non è mai apertamente malvagio, ma che è sempre sottilmente perfido, animato da un letale veleno interiore. Richiede, vale a dire, tutte quelle qualità vocali e interpretative che non hanno brillato, quando non sono mancate del tutto, nella prestazione del giovane baritono orientale. Il Credo, ad esempio, è stato eseguito più come un’invettiva, basata sulla potenza del canto, che come un momento di profilatura intima del personaggio. E così, come in quel momento dell’opera, anche in altri l’arte del piano e del rubato è restata episodica e la linea del canto non ha assunto quei toni melliflui e insinuanti che il personaggio esige. Bene, quindi, la voce ed il canto, ma meno bene l’interpretazione, che invece consente a questo giovane e promettente artista ampi margini di miglioramento.
Molto valido è stato il Cassio di Davide Tuscano, voce cristallina e ben appoggiata, dizione limpida, linea elegante. Il personaggio è stato sempre ben collocato nello spazio drammatico ed è risultato ben leggibile, senza forzature.
Tra i ruoli di contorno si è infine colta una lodevole compattezza di rendimento. Francesco Pittari ha disegnato un Roderigo partecipe e incisivo, saldo nel fraseggio; Natalia Gavrilan ha conferito a Emilia peso teatrale e presenza vocale di rilievo. Hanno completano il cast, con precisione e sicurezza, Francesco Leone come Lodovico, Alessio Verna come Montano e Cesare Lana come Araldo. Tutti bravi, con particolare merito per Emilia e Roderigo.
Rimane infine il versante scenico. La regia di Federico Tiezzi, molto minimale, ha alternato intuizioni a smarrimenti. L’uso dei drappi rossi ha avuto un impatto immediato, alcune proiezioni di parole hanno punteggiano con intelligenza la trama, e la scena del secondo atto con Desdemona avvolta da un panneggio prezioso ha disvelato una sua forza iconica. Altrove però la narrazione si è fatta opaca: le stanze popolate di teche con animali imbalsamati e l’irruzione di circensi in mezzo al palcoscenico sono state difficili da decodificare e hanno stentato a trovare una convincente e percettibile motivazione sul piano drammaturgico. Apprezzabili sono apparsi i led che incorniciavano lo spazio, con senso di linearità e pulizia; infelice si è rivelata però la camera da letto di Desdemona, rumorosa, quasi ospedaliera, con il consunto espediente della stanza che avanza verso la platea. Uno spettacolo che ha il merito di non avere interferito nello svolgersi della vicenda teatrale, qua e là pregevole, ma spesso scontato e poco comprensibile.
In sintesi, quindi, un’apertura del Festival Verdi 2025 con un esito complessivamente positivo, che ha ricevuto correttamente dal pubblico, un consenso aperto, anche se non entusiasta.




















