Carmina Burana • Spotti
- Lorenzo Giovati
- 20 lug
- Tempo di lettura: 4 min
Roma, Cavea dell’Auditorium Parco della Musica. 18 Luglio 2025.
Come già accaduto lo scorso anno, in occasione della rassegna “Estate a Santa Cecilia”, l’Orchestra Sinfonica Nazionale dei Conservatori Italiani è tornata sul palcoscenico della suggestiva cavea dell’Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone, invitata dall’Accademia romana, per un nuovo concerto estivo. Se nel 2024 era stata la volta del Requiem di Mozart, affidato alla bacchetta di Giuseppe Mengoli, quest’anno il programma ha virato con decisione verso una dimensione più profana, pur rimanendo all’interno del grande repertorio: i Carmina Burana di Carl Orff, diretti dal giovane e ormai affermato Michele Spotti.
Spotti ha saputo imporre da subito una direzione solida, strutturalmente nitida e ricca di personalità, qualità che non si rinvengono sempre nei direttori della sua generazione. La sua lettura è stata fortemente dinamica, capace di restituire la corporeità del ritmo orffiano e di valorizzare, senza forzature, la scrittura ostinata e percussiva che domina la partitura. Le pagine più concitate, dal celeberrimo O Fortuna, alla danza travolgente, passando per In taberna quando sumus (dove a tratti sembra potersi scorgere qualche influenza di Johann Strauss) e per la festosa espansione di Tempus est iocundum, sono risultate ben cesellate sul piano agogico e timbrico, sempre sorrette da un controllo saldo e da una notevole tensione interna. Nulla è sembrato sfuggire di mano al direttore, nemmeno nelle transizioni più complesse, né si sono avvertiti squilibri o scollamenti nei rapporti tra le masse orchestrali, corali e solistiche. Spotti ha saputo convincere anche nei momenti più introspettivi e sospesi: Olim lacus colueram, Dulcissime o Amor volat undique sono stati affrontati con una cura quasi cameristica, restituendone la tensione sottesa, l’ironia e, talvolta, persino un’inaspettata dolcezza lirica. Notevole il gioco dei contrasti, gestito con una tavolozza ampia di sfumature e un’articolazione sempre sorvegliata. I tempi scelti, talvolta arditi, sono stati sorretti da un controllo costante e hanno contribuito a restituire un carattere deciso e personale a questa interpretazione.
L’Orchestra Sinfonica Nazionale dei Conservatori Italiani ha sorpreso per compattezza e maturità di suono. Gli archi si sono distinti per precisione e duttilità, mentre i fiati, in particolare i legni, hanno saputo disegnare colori ricercati con nitidezza e trasparenza, come si è dimostrato nell’attacco quasi spettrale di Olim lacus colueram. Assolutamente eccellente è stata anche la prova delle percussioni, vero motore propulsivo della partitura orffiana, sempre nitide e calibrate nei volumi, così come quella degli ottoni, precisi e brillanti, con un plauso particolare alle trombe.
L’ensemble dei solisti si è dimostrato ben assortito e ha risposto con sicurezza alle difficoltà tecniche e stilistiche della scrittura vocale.
Il baritono Matteo Mancini, impegnato in una parte di grande varietà espressiva e notevole complessità vocale, ha mostrato uno strumento duttile e musicalmente intelligente. In Omnia sol temperat ha saputo tratteggiare una linea morbida e meditativa, mentre in Estuans interius ha affrontato la sfida del tempo serrato imposto da Spotti con un virtuosismo brillante, anche se in alcuni punti la dizione è parsa sacrificata alla velocità. È stato però in Ego sum abbas che ha raggiunto il suo apice, unendo teatralità e precisione, con un fraseggio mobilissimo e sicuro anche nelle zone più acute, quasi al limite del registro tenorile.
Omar Mancini, tenore dalla vocalità timbricamente ben centrata e proiettata, ha affrontato Olim lacus colueram con intelligenza musicale e senso del grottesco. Ha saputo cogliere la dimensione straniata e ironica del brano, mantenendo però un controllo impeccabile della linea vocale, con intonazioni sempre a fuoco e un timbro che si è ben integrato nel tessuto sonoro generale.
Marina Fita Monfort, soprano giovanissima e sorprendentemente matura per sicurezza tecnica, ha offerto una prova di rilievo. La sua voce cristallina, ha saputo affrontare le asperità della parte, dai passaggi acrobatici di Stetit puella agli acuti estremi di Dulcissime, senza mai perdere in musicalità o in purezza di suono. Impressionante la padronanza del registro acuto, sempre proiettato e privo di tensioni, che lascia presagire uno sviluppo vocale molto promettente.
Un plauso particolare va al Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, preparato dal maestro Andrea Secchi, protagonista imprescindibile di quest’opera corale. La compagine romana ha dimostrato ancora una volta tutta la sua straordinaria tenuta tecnica e musicale: impeccabile nella precisione degli attacchi, nella gestione delle dinamiche e nel fraseggio, ha saputo adattarsi perfettamente ai richiami e alle indicazioni del maestro Spotti, partecipando attivamente alla costruzione drammaturgica del concerto. L’omogeneità delle sezioni, la chiarezza del suono e la potenza espressiva emersa soprattutto nei momenti di massa (O Fortuna, In taberna quando sumus, Ave formosissima) sono stati tra i vertici dell’intera serata.
Notevole anche il Coro delle Voci Bianche dell’Accademia di Santa Cecilia, preparato da Claudia Morelli.
Il pubblico, accorso numeroso nella cornice estiva della cavea, ha risposto con entusiasmo a una proposta che ha saputo coniugare il valore artistico con un’energia comunicativa travolgente. Il concerto ha dimostrato che, quando i giovani vengono selezionati con cura e inseriti in un progetto serio, i risultati possono essere di altissimo livello. Segno che il mondo della musica classica, sebbene spesso dato per esaurito, ha ancora molto da dire.


















