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Scaccaglia e Mahler • Harding

  • Lorenzo Giovati
  • 1 giorno fa
  • Tempo di lettura: 3 min

Roma, Auditorium Parco della Musica. 7 Giugno 2025.

Reduce dalla presentazione della nuova stagione 2025/2026, l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia si avvia al periodo estivo celebrando una delle pagine più complesse e ambiziose del repertorio sinfonico. È tornato sul podio Daniel Harding per proseguire il suo ciclo mahleriano, che lo porterà nei prossimi anni ad affrontare l’intero corpus sinfonico del compositore boemo. Dopo la Prima Sinfonia, proposta nel periodo pasquale, è stata la volta della Seconda, la grandiosa Auferstehung, la Resurrezione. In apertura di serata, però, è stato eseguito Il carro del tempo, brano del giovane compositore parmigiano Enrico Scaccaglia, vincitore del Concorso Berio 2022, commissionato proprio dall’Accademia.

 

L’intento tematico di accostare una riflessione sul tempo, sviluppata in chiave contemporanea, alla dimensione trascendente della Resurrezione mahleriana ha forse una plausibilità concettuale, ma non ha trovato piena realizzazione nella pratica musicale. Il brano di Scaccaglia è apparso complesso nella scrittura e articolato nell’orchestrazione, elementi che possono certamente interessare un pubblico di addetti ai lavori, ma è risultato anche privo di una forza comunicativa altrettanto chiara. L’impressione è che l’intenzione fosse più nitida della sua realizzazione e che la lettura compositiva si sia scontrata con una realizzazione carente di un filo drammaturgico riconoscibile. Resta comunque da lodare l’impegno degli interpreti, in particolare quello del maestro Harding e dei percussionisti, che hanno affrontato con serietà e rigore una partitura assai difficile.

 

Senza intervallo si è quindi passati all’esecuzione della Seconda Sinfonia di Mahler. Fin dalle prime battute si è avvertito un certo squilibrio nella gestione agogica: l’attacco violento degli archi nel primo movimento non ha trovato un sufficiente spazio per sedimentare la tensione prima dell’ingresso del tema dei violoncelli, risultato poco incisivo. Il tempo scelto, inizialmente troppo rapido, ha però trovato una forma di equilibrio nella seconda metà del movimento, in cui il momento di massima tensione e il conseguente ritorno dell’incipit sono stati gestiti con forza drammatica e con energia crescente.

 

Il secondo tempo, anch’esso piuttosto serrato nel tempo, ha convinto per la qualità del fraseggio e per la scelta di dinamiche cantabili, sebbene la scrittura degli archi si sarebbe forse giovato di una maggiore leggerezza.

 

Il terzo movimento, invece, più vivace e paradossalmente affrontato con un tempo più disteso, ha restituito con chiarezza la dimensione ironica e popolare del Wunderhorn-Lied, grazie anche a una buona articolazione del tema.

 

Nel quarto movimento, Urlicht, il maestro Harding ha poi saputo calibrare con finezza il rapporto tra orchestra e voce solista, scegliendo un tempo giustamente meditativo e una scrittura orchestrale contenuta. Meno convincente è risultato l’intervento del mezzosoprano Sasha Cooke, dotata sì di una buona intonazione, ma segnata da un volume eccessivo, probabilmente amplificato artificialmente: le casse audio visibili ai lati del coro e la generale amplificazione dell’orchestra hanno lasciato ipotizzare un intervento tecnico che, se confermato, avrebbe parzialmente compromesso l’equilibrio acustico naturale.

 

L’ultimo movimento è stato senza dubbio il momento più riuscito dell’intera esecuzione. Harding ha trovato qui la misura giusta in ogni snodo, costruendo un arco narrativo coerente e di grande impatto emotivo. Bellissimo il lungo crescendo che ha preceduto il finale, eseguito con partecipazione intensa dal coro e con un ottimo intervento di Hanna-Elisabeth Müller. Di grande effetto anche gli interventi fuori scena: corni e timpani posizionati in alto nella sala e banda laterale sempre ben coordinata e suggestiva, nonostante qualche lieve imprecisione d’intonazione.

 

Nel complesso, quella offerta da Harding è stata una lettura rigorosa, equilibrata, molto tradizionale, solida nella struttura e convincente nel risultato, anche se priva di particolari guizzi interpretativi. Un Mahler “da manuale”, che ha preferito evitare ogni tentativo di innovazione, affidandosi alla qualità dell’orchestra (strepitosa) e a un’architettura musicale chiara e rispettosa della partitura.

 

L’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia ha suonato magnificamente: ottoni compatti (salvo qualche sporadica imprecisione nei fuori scena), archi sontuosi, fiati precisi, percussioni spettacolari per chiarezza e impatto.

 

Il Coro dell’Accademia di Santa Cecilia, preparato da Andrea Secchi, si è riconfermato superlativo per compattezza e volume.

 

Un concerto, nel suo insieme, di notevole valore, che ha confermato la qualità del progetto Mahler Harding e la statura di un’orchestra oggi fra le più affidabili d’Europa.


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