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Macbeth • Lanzillotta

  • Lorenzo Giovati
  • 2 ott
  • Tempo di lettura: 4 min

Busseto, Teatro Verdi. 27 Settembre 2025.

Ogni anno, il Festival Verdi si espande con intelligenza oltre le mura del Teatro Regio di Parma. Lo fa con la vivace rassegna Verdi OFF, che porta le musiche del maestro in città e provincia attraverso iniziative dal carattere popolare e partecipativo; e lo fa tramite la consolidata collaborazione con il Comune di Busseto, che mette a disposizione il raccolto Teatro Verdi. Una vera e propria bomboniera, finanziata dallo stesso maestro Verdi, ma da lui definita “inutile” e mai frequentata: in occasione dell’inaugurazione, addirittura, almeno così si narra, il compositore preferì recarsi alle Terme di Tabiano. Eppure, nel tempo, questo spazio minuscolo è diventato un luogo prezioso per sperimentarvi spettacoli che forse non avrebbero la stessa efficacia in un grande teatro, ma che proprio nella dimensione ridotta acquistano un valore particolare, quasi intimo, trasformandosi in esperienze pregevoli. Quest’anno a Busseto è andato in scena Macbeth, nella versione del 1847, secondo titolo del festival dedicato al rapporto tra Verdi e Shakespeare.


Vito Priante, chiamato a sostituire Davide Luciano, ha proposto un Macbeth di grande consapevolezza. L’esperienza maturata soprattutto nel repertorio mozartiano si è riflessa nella cura con cui ha cesellato ogni frase, nel fraseggio ampio e naturale e nella precisione delle dinamiche. La sua lettura del personaggio ha evitato la via della muscolarità e del piglio autoritario, privilegiando invece un Macbeth fragile e insicuro. Scenicamente è risultato convincente, sicuro nei movimenti e capace di incarnare il tormento interiore del personaggio. Il mezzo vocale si è palesato ampio e pulito, non sempre con il colore che contraddistingue quello dei grandi baritoni verdiani, ma con un’eleganza e un controllo che hanno garantito una prova di alto livello.


Accanto a lui, la giovane Marily Santoro ha saputo imporsi con decisione nei panni di Lady Macbeth. La voce si è distinta per potenza e stabilità, nonché per il timbro limpido, sempre ben centrato, privo di incertezze d’intonazione. L’interpretazione è stata intensa e partecipe, anche se a tratti è mancata quella tinta più torbida che tradizionalmente si associa al personaggio. Negli acuti, inoltre, la cantante tende talvolta a spingere sul forte, sacrificando un po’ la morbidezza del suono. Tuttavia, la prova complessiva è stata di grande interesse, conseguendo risultati già maturi e rivelando margini di crescita che fanno presagire un futuro brillante.


Adolfo Corrado ha brillato come Banco, grazie a una vocalità scura e solida, sontuosa nell’emissione e al tempo stesso nitida nel fraseggio. La sicurezza dell’intonazione e la bellezza del timbro hanno restituito un personaggio autorevole, mai eccessivo, ma incisivo in ogni intervento. Una voce di proiezione naturale, che senza difficoltà potrebbe imporsi anche negli spazi di un grande teatro.


Matteo Roma ha poi interpretato con partecipazione e consapevolezza la parte di Macduff. La voce, chiara e ben emessa, ha mostrato una buona ampiezza di suono, forse persino eccessiva nell’aria “Ah, la paterna mano”, ma sempre sostenuta da un fraseggio accurato e da un’intonazione solida.


Tutti i comprimari si sono dimostrati efficaci e ben selezionati, a partire da Melissa D’Ottavi, dama di Lady Macbeth, che si è distinta per precisione e qualità vocale. Francesco Congiu come Malcolm, Emil Abdullaiev nel ruolo del medico e Matteo Pietrapiana, impegnato in più parti, hanno completato il cast con professionalità e sicurezza.


La direzione di Francesco Lanzillotta ha dovuto fare i conti con le dimensioni ridotte della buca del teatro e con un organico orchestrale necessariamente contenuto. Nonostante i limiti logistici, il maestro ha saputo ben calibrare l’intensità del suono, senza per contro penalizzare la tensione drammatica e o il fluire dello sviluppo melodico. La sua lettura ha disegnato una sorta di Macbeth “da camera”, in cui l’essenzialità dei mezzi non ha mai significato rinuncia espressiva, ma anzi è stata occasione per affinare i contrasti e mettere in risalto le linee vocali. Il gesto si è confermato attento e puntuale, sempre vigile alle esigenze dei cantanti e in costante dialogo con il palcoscenico, mantenendo coesione e scorrevolezza in un contesto delicato come quello di Busseto. Anche i tempi, scelti con misura, hanno contribuito a dare chiarezza narrativa senza sacrificare la tensione interna della partitura.


L’Orchestra Giovanile Italiana ha svolto con impegno il proprio compito. I fiati e gli ottoni si sono distinti per precisione, mentre gli archi, pur non sempre compatti, hanno garantito una resa dignitosa, soprattutto nei momenti in cui era necessario un attento dosaggio di piani e forti. Non un suono pieno e definito come quello di una grande compagine, ma un contributo che ha comunque sostenuto l’opera senza penalizzarla.


Il Coro del Festival Verdi preparato da Martino Faggiani si è imposto come sempre per solidità, compattezza e forza comunicativa.


La regia di Manuel Renga ha infine sorpreso per intelligenza e per cura estetica. Giocata su atmosfere cupe e suggestive, ha sfruttato ombre, proiezioni, movimenti coreografici, inserendo anche soluzioni sceniche ardite come la pedana in platea, che, se da un lato ha ridotto la capienza già limitata del teatro, dall’altro lato ha però moltiplicato le possibilità espressive. Ne è risultata una visione, né tradizionale, né banale, capace di aderire al dramma shakespeariano con coerenza e inventiva. Una regia raffinata, che ha saputo dialogare con gli spazi raccolti del teatro bussetano trasformandoli in un punto di forza.


Questa edizione bussetana di Macbeth ha quindi confortato ancora una volta la scelta coraggiosa del Festival Verdi di saper diversificare la propria offerta: non solo grandi produzioni al Teatro Regio, ma anche occasioni più ardite e innovative, che mettono in luce interpreti di valore e progetti di pregevole profilo.


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