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Mozart • Minkowski

  • Lorenzo Giovati
  • 26 mag
  • Tempo di lettura: 6 min

Torino, Auditorium Giovanni Agnelli. 20 Maggio 2025.

Le ultime tre sinfonie di Wolfgang Amadeus Mozart, la n. 39 in Mi bemolle maggiore K.543, la n. 40 in Sol minore K.550 e la n. 41 in Do maggiore K.551, detta “Jupiter”, rappresentano un vertice assoluto del sinfonismo settecentesco e, più in generale, della storia della musica. Composte in un arco temporale sorprendentemente breve, nell’estate del 1788, costituiscono un trittico affascinante. Dalla brillante e festosa apertura della n. 39, con i suoi richiami haydniani, si passa all’inquietudine drammatica (anche se all'epoca non veniva considerata tale) della n. 40, fino alla solennità marziale della n. 41. Le analogie presenti in queste tre composizioni e le differenze con le altre sinfonie fanno supporre che Mozart le avesse intese come un ciclo unitario, sebbene non esistano testimonianze di esecuzioni congiunte all’epoca. Un poco quello che avverrà, in un altro secolo e in un altro linguaggio, con il Trittico pucciniano: tre pannelli autonomi, ma connessi da una visione d’insieme. Per questo ha colpito positivamente la scelta del Lingotto Musica di proporre, in un unico concerto, l’esecuzione integrale di queste tre sinfonie. Affidarle alla direzione di Marc Minkowski, specialista del repertorio settecentesco e fondatore dell’ensemble Les Musiciens du Louvre, è stata una scelta coerente e di forte identità. Con strumenti originali e una prassi esecutiva filologica, ma tutt’altro che museale, Minkowski ha saputo restituire la freschezza, l’inquietudine e la grandiosità di queste partiture, trasmettendo al pubblico l’impressione di trovarsi di fronte a un’opera che può ancora sorprendere.


Fin dalle prime battute della Sinfonia n. 39, Minkowski ha tracciato una linea melodica di grande eleganza e fluidità, privilegiando una lettura scorrevole e flessibile. Tuttavia, nella prima parte dell’Allegro iniziale, questa libertà agogica è apparsa talvolta eccessiva, con un’orchestra non sempre pienamente sostenuta sul piano sonoro e una velocità marcata. Col passare dei minuti, però, l’equilibrio si è consolidato: le dinamiche si sono fatte via via più levigate, brillanti, ma mai eccessive, restituendo un fraseggio naturale e luminoso. Nel secondo movimento si è imposta una cantabilità diffusa, resa con un senso del respiro ampio e misurato. Il tempo scelto, decisamente sostenuto, ha evidenziato la vena più arguta della scrittura, con tratti leggeri e giocosi che hanno conferito all’Andante una fisionomia quasi scherzosa. Particolarmente riusciti in questo senso i dialoghi tra i fiati, punteggiati da figurazioni che sembravano suggerire il tono di un sorriso, se non addirittura di una risata, nascosta tra le pieghe della partitura. Il Minuetto si è aperto con slancio, caratterizzato da un’irruenza controllata e da un efficace gioco di contrasti timbrici: da un lato la morbidezza degli archi legati, dall’altro l’incisività dei fiati, sempre precisi e ben articolati. Nel Finale, Minkowski ha impresso un ritmo incalzante, dando vita a un movimento conclusivo travolgente, ma sempre nitido. La scelta di valorizzare alcune sfumature timbriche, come la sonorità vellutata dei corni in certi passaggi, ha aggiunto profondità all’insieme. Non sono mancati momenti di sorpresa, costruiti attraverso pianissimi inattesi che, con raffinato senso del teatro, venivano trasformati in crescendo capaci di cogliere l’ascoltatore di sorpresa, aprendo a un gioco continuo tra attesa e rilancio.


Al termine dell’esecuzione, Minkowski si è rivolto al pubblico con poche, ma incisive parole, illustrando la propria lettura simbolica delle tre sinfonie come rappresentazione di tre elementi primordiali: l’acqua, il fuoco e la terra.


Su quell’intuizione poetica evocata da Minkowski, l’associazione delle tre sinfonie agli elementi naturali, si è innestata con decisione l’apertura della Sinfonia n. 40 in Sol minore. L’attacco è stato netto, quasi brusco, con un tempo sorprendentemente rapido e una lettura che ha rinunciato a ogni solennità introspettiva, preferendo un andamento teso, nervoso, incalzante. Se da un lato questo approccio ha sacrificato parte della profondità drammatica, dall’altro ha coerentemente tradotto in suono l’elemento “fuoco” evocato dal direttore, restituendo l’urgenza e l’irrequietezza che percorrono l’intera partitura. Accanto a momenti concitati, non sono mancate parentesi più sospese e oniriche, abilmente incastonate all’interno della tessitura. Di particolare rilievo l’attenzione al valore espressivo delle pause, spesso ben sottolineate e rese vive, capaci di imprimere respiro e articolazione al discorso musicale. Sempre prezioso e puntuale l’apporto delle viole, che hanno saputo delineare con grande precisione quel tessuto ruvido e inquieto che accompagna in sordina l’intero movimento, come un brontolio sotterraneo. Il secondo tempo, in contrasto netto con il primo, è stato condotto con una morbidezza assorta, quasi cantabile, anche se punteggiato da improvvisi ritorni di tensione, in cui riemergeva la drammaticità latente della scrittura. Il Minuetto è corso via con grande rapidità, rivelando un interessante intreccio contrappuntistico tra le sezioni dell’orchestra, messo in risalto da un fraseggio secco e ben articolato. Il Trio centrale ha offerto una parentesi più morbida, ben calibrata all’interno della struttura, senza cadute di tensione o sbavature agogiche. Come già nella Sinfonia n. 39, anche il Finale ha riservato sorprese, in particolare grazie a un uso molto personale delle dinamiche: pianissimi quasi sussurrati, improvvisi crescendo inattesi e un senso di inquietudine sempre presente ma saldamente governato. L’agitazione non si è mai trasformata in disordine; al contrario, tutto appariva controllato, costruito con rigore e immaginazione, in perfetta coerenza con una lettura che ha fatto del contrasto tra impeto e lucidità il proprio punto di forza.


A chiudere il programma, la Sinfonia n. 41 in Do maggiore, la cosiddetta “Jupiter”, ha confermato e portato a compimento la visione di Minkowski, che l’ha associata simbolicamente all’elemento “terra”. Dall’architettura monumentale e dal tono solenne, questa sinfonia ha trovato nell’interpretazione del direttore e dei suoi Musiciens du Louvre una realizzazione di grande impatto e autorevolezza. Fin dall’inizio l’orchestra ha recuperato ampiezza e presenza sonora, sostenendo una lettura solida, marziale e insieme fluida. Particolarmente incisivi gli ottoni, dal timbro ruvido ma maestoso, capaci di conferire autorevolezza ai momenti più solenni senza mai appesantire l’impasto sonoro. Le dinamiche, gestite con cura e intelligenza, hanno reso viva e mobile la struttura dell’Allegro iniziale. Il secondo movimento ha offerto un contrappunto lirico, sviluppato con eleganza rarefatta e quasi onirica. Qui Minkowski ha scelto un tempo disteso, ma non statico, capace di mantenere la tensione sottile del discorso musicale, pur nella morbidezza dell’atmosfera. Il Minuetto è risuonato brillante, solido, con un suono pieno e rotondo, ben sostenuto dagli archi. Il Finale ha coronato la sinfonia, e l’intero trittico, con un’esecuzione travolgente, tanto per l’energia, quanto per la precisione. I celebri passaggi contrappuntistici si sono susseguiti con una chiarezza cristallina e una velocità controllata, che non ha mai sacrificato la trasparenza delle voci. La coda, poderosa e incalzante, ha lasciato un’impressione di grande forza strutturale e teatrale, suggellando con magnificenza un progetto interpretativo coerente, personale e profondamente rispettoso della complessità mozartiana.


Al termine dell’esecuzione, una lunga ovazione ha salutato Minkowski e Les Musiciens du Louvre. Un entusiasmo che si è interrotto solo per lasciare spazio a un bis raffinato e sorprendente: l’Entrée de Polymnie da Les Boréades di Jean-Philippe Rameau. Scelta tutt’altro che scontata, questa pagina ha offerto un momento di pura sospensione, quasi ultraterrena, in cui l’orchestra ha saputo esprimere una leggerezza scolpita nel dettaglio e nel respiro.


Les Musiciens du Louvre si sono rivelati una compagine strumentale di notevole personalità, con un suono distintivo che, pur evocando in parte le raffinate letture delle orchestre di John Eliot Gardiner, se ne distacca per una diversa qualità timbrica, meno morbida, meno inglese e più viva. Il loro timbro, sottile e quasi minuto in alcuni passaggi, ha evocato una sensibilità sonora chiaramente più francese, capace tuttavia di espandersi con ampiezza e vigore quando richiesto. Ha colpito la versatilità dell’ensemble, sempre pronto a modellare il suono in funzione delle intenzioni espressive del direttore, con il quale si è percepita una sintonia profonda, anche nei momenti in cui il gesto appariva meno nitido. Un dettaglio curioso ha riguardato la sezione dei violoncelli: i musicisti suonavano lo strumento tenendolo stretto tra le gambe, senza l’uso della tradizionale puntella di metallo o base lignea. Una scelta che, verosimilmente, potrebbe mirare a evitare interferenze acustiche con la base lignea, mantenendo un equilibrio sonoro più puro. Interessante anche la disposizione orchestrale, pensata in modo da valorizzare le relazioni interne tra le sezioni: i violini primi e secondi erano disposti simmetricamente ai lati del direttore, con le viole immediatamente accanto e i corni collocati dietro queste ultime, a sottolineare i frequenti rimandi tematici tra le rispettive linee. I contrabbassi si trovavano invece in prossimità dei fiati, con clarini (trombe naturali, lunghe, tipiche dell’epoca di Mozart) e timpani ravvicinati tra loro, mentre l’intera sezione dei fiati occupava la parte posteriore del palco. L’esecuzione è stata, nel complesso, di altissimo livello. Il suono sempre curato, mai eccessivamente barocco, né manierato, ha restituito con chiarezza un’identità stilistica pienamente settecentesca, capace di coniugare rigore e vitalità con una naturalezza rara.


Quella proposta al Lingotto da Marc Minkowski e dai suoi Musiciens du Louvre è stata dunque un’esecuzione che ha saputo restituire al pubblico, non solo la straordinaria ricchezza delle ultime tre sinfonie mozartiane, ma anche una visione chiara, particolare e strutturata del loro insieme. Una serata memorabile, capace di coniugare rigore filologico, creatività interpretativa e una profonda coerenza espressiva.



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