Mahler • Mengoli
- Lorenzo Giovati
- 4 ott
- Tempo di lettura: 3 min
Venezia, Teatro La Fenice. 28 Settembre 2025.
In un pomeriggio iniziato in modo un poco movimentato per ragioni non legate all’evento in programma, comunque rapidamente e compostamente superate, a imporsi è stata la musica. Soprattutto quella interpretata dal maestro Giuseppe Mengoli che ha restituito alla Sesta Sinfonia di Mahler, unico brano in programma, la sua architettura implacabile e la sua febbre interiore con lucidità analitica, con fermezza di gesto e con un controllo dei piani sonori non comune in un interprete della sua generazione. A precedere il primo attacco, poche frasi rivolte al pubblico, composto in gran parte da giovani: non l’ennesima introduzione aneddotica, ma un'interessante contributo per orientare l’ascolto verso la dimensione più segreta della partitura, ciò che sta dietro le note e le governa.
Nel primo movimento, Allegro energico ma non troppo, il maestro Mengoli ha scelto un tempo di marcia esatto, sostenuto con grande rigore. La spinta è venuta dagli archi scuri, saldamente a fuoco, resi veri motori dell’azione, con il tamburo rullante sempre presente, ma mai invadente. Il tema di Alma è sorto con naturalezza di canto, disegnato in arcate ampie e sostenuto da un respiro armonico che ne ha valorizzato la linea. Nei passaggi di transizione, spesso insidiosi, il fraseggio ha trovato una misura elegante e la coda, costruita a gradi di pressione dinamica, ha mostrato la mano del direttore nel tenere insieme energia e misura. In tutto il movimento ha colpito la qualità del dosaggio, la trasparenza, l’intelligenza delle articolazioni interne affidate ai legni, nitidissime, senza mai emergere come dettaglio isolato.
Il maestro Mengoli ha poi ordinato i movimenti nella disposizione Scherzo prima e Andante dopo, scelta sostenuta da testimonianze coeve e da una logica drammaturgica che colloca l’ironia corrosiva dello Scherzo come immediata risposta all’imperativo del primo tempo. Lo Scherzo ha avuto grana ruvida e un suono a tratti grottesco ed è stato sempre governato con esattezza metronomica. Il maestro Mengoli ha curato con attenzione quasi cameristica le dinamiche interne, facendo sempre percepire i contrappunti di secondo piano. Le false danze, i contraccolpi d’accento, i rapidi sbalzi d’umore sono risultati fenomeni di un unico clima espressivo, continuamente variato.
Splendido è poi stato l’Andante moderato, tenuto su un tempo disteso, ma non indulgente, con il cantabile degli archi sempre sostenuto da un respiro ampio. Il discorso è parso continuamente scolpito, con frasi che si aprivano e si chiudevano secondo una logica di necessità, mai per semplice abitudine di tradizione. Qui l’orchestra ha offerto il suo suono più luminoso, con i violini compatti e un corpo dei contrabbassi esemplare per coesione, mentre i legni hanno posto una tavolozza di colori sobri, ma ricchissimi di sfumature.
Nel Finale il lavoro del maestro Mengoli ha toccato il suo vertice. Il movimento è corso con slancio scattante, ritmicamente precisissimo e di esatta rapidità, capace di tenere tesa la grande forma senza sacrificare il rilievo dei molteplici episodi. La gestione dei culmini è stata di rara intelligenza, con crescendo costruiti per strati, compressi e rilasciati secondo una rigorosa economia drammatica. Nei grandi pannelli del Finale, dall’irrompere dei corali di ottoni all’intrico delle fughe interne sino ai tagli improvvisi di luce, si è sempre avuta la sensazione di un punto di vista chiaro: ogni nodo è stato sciolto per ragioni musicali e ogni dettaglio trovava posto in un'idea e in una visione perfettamente ordinata.
L’Orchestra del Teatro La Fenice ha suonato con personalità e intensità, suono di archi luminoso e omogeneo, fiati precisi, contrabbassi esemplari per compattezza. Qualche esitazione nel primo corno non ha scalfito la qualità generale del disegno. Anche nelle sezioni più esposte, l’equilibrio dei piani è rimasto costante, segno di un lavoro di preparazione accurato e di una concertazione attenta alle proporzioni.
In conclusione, l’interpretazione del maestro Mengoli è stata molto pregevole per qualità di pensiero e compiutezza realizzativa. La chiarezza formale, il controllo del ritmo interno, la sapienza nel dosaggio dinamico, la cura del dettaglio e la capacità di tenere in mano il lungo respiro della costruzione mahleriana delineano il profilo di uno dei migliori giovani direttori italiani degli ultimi anni. Non solo talento, ma anche studio; non solo energia, ma anche misura. È una lettura che lascia il desiderio di riascoltarlo presto in Mahler e, più in generale, in quel grande sinfonismo che chiede autorevolezza e personalità insieme.












