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Mahler e Dvorak • Harding

  • Lorenzo Giovati
  • 21 apr
  • Tempo di lettura: 5 min

Roma, Auditorium Parco della Musica. 17 Aprile 2025.

Durante la sua presentazione come Direttore principale designato, ormai qualche anno fa, il maestro Daniel Harding aveva annunciato al pubblico romano tre progetti di grande rilievo, che si proponeva di realizzare insieme all’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia: una Tosca destinata a inaugurare una collaborazione con la Deutsche Grammophon, una Messa da Requiem di Giuseppe Verdi, da eseguire in una delle Basiliche di Roma (entrambi concretizzati nel mese di ottobre), e infine l’impegnativa impresa di eseguire, nel corso di più stagioni, l’integrale delle sinfonie di Gustav Mahler. Forse per amore verso Mahler, trasmessogli anche dal grande Claudio Abbado, di cui Harding fu assistente durante gli anni berlinesi, o forse anche perché proprio l’Accademia di Santa Cecilia fu l’unica istituzione musicale italiana ad accogliere Mahler come direttore d’orchestra, Harding ha scelto di dare vita a questo progetto proprio a Roma, città che il compositore visitò nel 1907, in pieno periodo pasquale, per dirigere tre concerti. L’esperienza romana di Mahler, tuttavia, fu tutt’altro che felice: i treni subirono gravi guasti, i ritardi furono infiniti, e il compositore perse il bagaglio e una somma considerevole di denaro. Sebbene da allora le cose non siano cambiate più di tanto e nonostante l’aiuto offertogli all’epoca dalla Regina Margherita, i concerti che oggi vedono protagonista Harding alla guida delle sinfonie mahleriane sembrano voler idealmente risarcire quel soggiorno sfortunato, restituendo a Mahler l’accoglienza che Roma non seppe garantirgli in vita.


Questo lungo percorso non è iniziato, come ci si potrebbe aspettare, con l’esecuzione della Prima Sinfonia, bensì con Blumine, l’originario secondo movimento della sinfonia stessa, espunto da Mahler nella versione definitiva e riscoperto da Donald Mitchell soltanto nel 1966. Come si legge nel programma di sala, il titolo deriva da una raccolta di Jean Paul (Richter), tra le predilezioni letterarie di Mahler negli anni della composizione: Herbst-Blumine, ovvero “florilegio d’autunno”. Il tema del brano, Mahler lo riprende dalla musica di scena scritta per Der Trompeter von Säckingen, un poema epico allora assai popolare: un procedimento simile a quello che adotterà nel celebre terzo movimento della sinfonia, costruito sulle note di Fra Martino trasposte in minore e rielaborate in libere variazioni.

Blumine si presenta come una pagina di scrittura semplice e trasparente, dall’atmosfera intima e sospesa, che il maestro Daniel Harding ha saputo valorizzare con un tempo disteso e dinamiche quasi impalpabili, soprattutto nella filigrana degli archi. Di grande eleganza è stato anche l’intervento solistico della prima tromba Andrea Lucchi, dal suono rotondo, intonato e sempre sorvegliato.


A seguire, è stato proposto il Concerto per violino in la minore op. 53 di Antonín Dvorák, forse non tra i suoi vertici assoluti per inventiva tematica e audacia formale, ma certamente un’opera di grande solidità, che si è inserito con naturale coerenza all’interno del programma,  sia per la contiguità cronologica, sia per l’affinità tra Mahler e Dvorák nell'utilizzo di temi provenienti dalla tradizione popolare. Protagonista al violino è stato Joshua Bell, fresco di un’esibizione alla Scala sotto la direzione di Lahav Shani. Bell ha confermato ancora una volta la sua piena padronanza dello strumento, offrendo una lettura salda e rifinita del concerto. Il suo suono, ampio e levigato, ha saputo brillare per morbidezza, risultando però sempre presente anche nei passaggi più rarefatti. Il fraseggio si è rivelato curato e sempre sorretto da un'eccellente sicurezza. L’intesa con il maestro Daniel Harding è apparsa solida, ben gestita nelle transizioni e nei respiri condivisi, soprattutto nel primo movimento, dove il dialogo fra solista e orchestra è più fitto e articolato. Harding ha adottato una direzione compatta e sorvegliata, dal taglio piuttosto tradizionale: attenta alle esigenze del solista, ma forse un po’ trattenuta nel terzo movimento (Finale. Allegro giocoso, ma non troppo), che avrebbe potuto beneficiare di maggiore esuberanza e di più ampia varietà dinamica. Nel complesso, un’esecuzione di pregio, in cui l’eleganza del gesto e la qualità timbrica hanno prevalso sulla brillantezza.


La seconda parte del concerto è stata interamente dedicata alla Sinfonia n. 1 di Gustav Mahler, detta Titan. Una partitura che, a un primo ascolto, può apparire quasi scolastica nella sua struttura e nei mezzi impiegati, soprattutto se confrontata con le sinfonie successive, dove l’organico si espande, il linguaggio si fa più audace e la scrittura orchestrale si arricchisce di soluzioni timbriche e contrappuntistiche assai più moderne. Eppure, nella sua apparente semplicità, questa sinfonia custodisce già molte delle ossessioni, delle tensioni e delle ambizioni poetiche che animeranno tutta la produzione mahleriana. Mahler stesso aveva concepito l’opera come un poema sinfonico in forma di sinfonia, articolato in due grandi sezioni: i “Ricordi di giovinezza”, che includevano anche Blumine, e la “Commedia umana”, con la celebre Marcia funebre alla maniera di Callot (ispirata a una xilografia popolare e ai racconti di E.T.A. Hoffmann) e il concitato ultimo movimento, emblematicamente intitolato “Dall’inferno al paradiso”. La sinfonia doveva, nelle intenzioni del compositore, raccontare le vicende interiori di un eroe immaginario, sospeso tra idillio e tormento, tra nostalgia e lotta.


Daniel Harding ha offerto una lettura personale e ben strutturata dell’opera, caratterizzata da una scelta agogica tendenzialmente rapida, ma non priva di sfumature. Il primo movimento ha avuto un inizio particolarmente suggestivo: la nebbiosa introduzione è stata resa con grande cura timbrica, in particolare nel dialogo dei fiati e nel respiro controllato degli archi, capaci di evocare quella lontananza sospesa che Mahler tanto ricercava. Tuttavia, la coda del movimento è risultata un po’ affrettata, mancando di quel senso di espansione conclusiva che ne rafforza l’impatto emotivo. Il secondo movimento, lo scherzo rustico e danzante, ha convinto meno: se da un lato l’energia ritmica era ben calibrata, dall’altro lato le dinamiche sono apparse poco differenziate, soprattutto nelle sezioni esterne, dove un maggior contrasto agogico avrebbe arricchito la varietà dell’insieme. Di tutt’altro livello è stato il terzo movimento, forse il più riuscito dell’esecuzione. Harding ha scelto un tempo piuttosto disteso, mantenendo però un controllo rigoroso della forma e delle transizioni. La marcia funebre su Fra Martino è stata resa con un giusto equilibrio fra parodia e malinconia, lasciando emergere con chiarezza, sia le allusioni grottesche, sia il pathos che affiora nelle sezioni centrali. Nel movimento conclusivo, Harding ha optato per una lettura tempestosa e coesa, ma anche qui si è sentita una certa uniformità nei tempi, con scarsa differenziazione fra le varie sezioni. Alcuni rallentandi strategici, in particolare nei momenti più lirici o nei ritorni tematici, avrebbero concesso maggior respiro e drammaticità alla costruzione generale. Tuttavia, il finale è stato di grande impatto, grazie anche a un controllo saldo della progressione e a una gestione efficace della tensione fino al culmine conclusivo. Nel complesso, un’esecuzione che si è fatta apprezzare per la chiarezza formale e per la coerenza interpretativa, pur con qualche scelta discutibile sul piano espressivo.


Splendido il suono dell’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, che ha risposto con prontezza e sensibilità al gesto di Harding. Notevoli i corni, protagonisti del finale con un suono compatto e ben centrato, e le percussioni, sempre incisive e controllate. I fiati si sono distinti per la qualità degli interventi brevi, ma perentori, mentre gli archi hanno saputo tessere un suono morbido, levigato, di grande eleganza, sostenendo con continuità l’arco narrativo dell’intera sinfonia.

Questo primo appuntamento del ciclo sinfonico dedicato a Mahler ha segnato dunque un inizio solido e promettente, in cui l’intelligenza direttoriale di Harding ha saputo coniugarsi con l’eccellenza esecutiva dell’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia.



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