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Macbeth • Jordan

  • Lorenzo Giovati
  • 17 ago
  • Tempo di lettura: 4 min

Salisburgo, Großes Festspielhaus. 14 Agosto 2025.

Non capita spesso di potersi confrontare due volte, a distanza di pochi anni, con la medesima produzione lirica, affidata allo stesso cast e allo stesso impianto scenico. È successo a Salisburgo con il Macbeth già applaudito nel 2023, tornato ora con forza rinnovata a confermare non solo la solidità della scelta, ma anche la sua capacità di imporsi come uno degli appuntamenti più significativi di questo Festival. Se dal punto di vista registico lo spettacolo ha continuato a dividere, sotto il profilo musicale e interpretativo la serata ha rappresentato un punto di riferimento difficilmente eguagliabile.


La direzione del maestro Philippe Jordan è stata il vero motore dello spettacolo. Non si trattava di una concertazione spettacolare o artificiosamente ricercata, bensì di un lavoro rigoroso, che andava in profondità, in cui ogni scelta trovava una precisa giustificazione drammaturgica. Jordan non si è limitato ad accompagnare i cantanti, ma ha modellato la loro voce all’interno di un disegno sinfonico più ampio, dialogando costantemente con il palcoscenico. I tempi, sempre meditati, rivelavano una straordinaria elasticità: quando la psicologia dei personaggi richiedeva spazio e respiro, Jordan sapeva dilatare le battute e far risuonare perfino le pause senza spegnere la tensione; nei momenti di concitazione drammatica, al contrario, stringeva il fraseggio con energia, ma senza mai cadere nella frenesia. La sua bacchetta sapeva dare alla musica l’ampiezza della tragedia e insieme la lucidità di una narrazione chiara, rivelando un controllo che teneva insieme l’orchestra, il coro e i solisti come se fossero un unico organismo respirante.


La sua lettura, asciutta e intensamente teatrale, ha trovato nei Wiener Philharmoniker degli interpreti ideali: gli archi, dal fraseggio morbido e compatto, hanno disegnato un paesaggio sonoro di ineguagliabile eleganza; gli ottoni, precisi e levigati, hanno smentito ogni cliché di ruvidità verdiana, integrandosi con naturalezza nell’impasto orchestrale. Il risultato è stato un Verdi vivo, che respirava di tensione teatrale in ogni battuta.


Straordinario il Konzertvereinigung Wiener Staatsopernchor, capace di dominare tanto i fortissimi travolgenti che chiudono il primo e il secondo atto quanto i pianissimi rarefatti e struggenti del Patria oppressa, eseguito con una compattezza e una duttilità dinamica davvero eccezionali.


Sul palcoscenico, la coppia protagonista ha rappresentato il fulcro dell’azione. Vladislav Sulimsky, nei panni di Macbeth, ha offerto un’interpretazione di grande solidità. Non rientra forse nei canoni del perfetto “baritono verdiano” per timbro e squillo, ma la sua voce, compatta e di notevole volume, gli ha permesso di dominare la scena senza sforzo. Se la pronuncia italiana lasciava qua e là a desiderare, ciò non ha intaccato la forza espressiva di un canto che sapeva unire potenza e controllo. Sulimsky ha restituito un Macbeth tormentato e complesso, non solo il condottiero ambizioso ma un uomo diviso, vulnerabile, spesso preda della propria fragilità. Il fraseggio, curato e mai lasciato al caso, ha reso percepibile l’evoluzione psicologica del personaggio: dall’iniziale incertezza, al delirio visionario, fino alla disperata ostinazione dell’atto finale.


Al suo fianco, Asmik Grigorian ha confermato di essere una Lady Macbeth destinata a imporsi come riferimento. Vocalmente impeccabile (intonazione sempre centrata, grande tecnica, agilità gestite con naturalezza sorprendente) ha saputo piegare la sua voce a innumerevoli sfumature espressive. Non c’era soltanto l’elettricità della donna di potere, ma anche l’ironia sottile, la follia progressiva: ogni gesto scenico, ogni inflessione vocale, erano studiati. Che fosse immobile, sdraiata, in movimento, la precisione del suo canto non veniva mai meno. È stata una Lady poliedrica e magnetica, che trascinava lo spettatore in un vortice psicologico affascinante.


Il Banco di Tareq Nazmi ha completato con grande autorevolezza il quadro principale. La sua voce di basso, ricca e ben timbrata, ha conferito al personaggio un peso scenico di rara nobiltà. Il suo Banco non era freddo, ma un uomo perennemente attraversato da ombre e fragilità. La sua è stata una prova eccellente, grazie a un fraseggio che coniugava linearità e sottile tensione interiore.


Non meno incisivo il Macduff di Charles Castronovo, che ha restituito dignità e spessore a un ruolo spesso trascurato. Dotato di un lirismo caldo e luminoso, Castronovo ha saputo piegare la sua voce a un fraseggio intensamente espressivo, curato nei dettagli dinamici e nei colori. “Ah, la paterna mano” è stata eseguita bene: non un semplice sfogo doloroso, ma una pagina costruita con autentica partecipazione emotiva. Anche nei momenti d’insieme, il suo Macduff sapeva farsi ascoltare con naturale autorevolezza, trovando un equilibrio perfetto nella scena finale con Malcolm. Nonostante un lieve velo vocale e una respirazione dal naso un poco affaticata che tradiva una condizione fisica forse non ottimale, Castronovo ha saputo farsi molto ben apprezzare.


Il giovane Davide Tuscano, nei panni di Malcolm, ha sorpreso per compattezza vocale. Una prova capace di reggere il confronto con Castronovo nell’ultima scena.


Natalia Gavrilan, dama di Lady Macbeth, ha offerto una prestazione solida e funzionale, completando un cast di notevole omogeneità.


Resta da considerare la regia di Krzysztof Warlikowski, bersaglio di fischi anche in questa ripresa. Eppure, a ben guardare, non si tratta di una regia banale o pretestuosa, ma di un lavoro che affronta di petto il tema della filiazione e della discendenza. I bambini, i neonati, le figure infantili travestite da Banquo popolano l’immaginario visivo del dramma, trasformando le visioni in un incubo di perpetua minaccia. La scena unica, lungi dall’essere statica, veniva continuamente reinventata attraverso un dinamismo calibrato e dall’uso di telecamere che proiettavano in tempo reale le azioni in palcoscenico, creando un effetto straniante. Non tutto risultava di immediata leggibilità, ma il bilancio complessivo resta di grande forza concettuale e teatrale. Warlikowski non illustra, non accompagna, ma obbliga a guardare l’opera con occhi nuovi, a percepirne l’ambiguità e la modernità perturbante. Non è un Macbeth che consola: è un Macbeth che inquieta. Una regia di talento.


Non si è trattato quindi di un Macbeth costruito sull’ostentazione di grandi nomi o sull’assemblaggio delle voci più celebrate per questi ruoli, ma di uno spettacolo concepito come organismo completo, pensato nella sua interezza e non come sommatoria di componenti. La musica, con il sostegno di un cast di altissimo livello, ha garantito coesione a un impianto visivo volutamente destabilizzante, generando un Macbeth ragionato, coerente, capace di vivere come esperienza teatrale completa e non come mera sequenza di prestazioni individuali. Dopo le interpretazioni storiche di Abbado, Leinsdorf, Muti e Sinopoli, questa produzione salisburghese può rivendicare il merito di aver scritto una nuova pagina nella storia esecutiva del capolavoro verdiano. Un Macbeth che non si dimentica.


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