Giovanna d'Arco • Gamba
- Lorenzo Giovati
- 25 gen
- Tempo di lettura: 5 min
Aggiornamento: 26 gen
Parma, Teatro Regio. 24 Gennaio 2024.
Non è frequente ascoltare a Parma le musiche di Verdi al di fuori del tradizionale Festival Verdi, il prestigioso evento che ogni anno, tra settembre e ottobre, trasforma la città nella capitale della lirica verdiana. Quest’anno, tuttavia, il Teatro Regio ha deciso di rompere questa consuetudine, inserendo all’interno della propria stagione lirica una delle opere meno rappresentate della produzione del Maestro delle Roncole: Giovanna d’Arco. Una scelta che assume anche un valore simbolico e celebrativo, poiché proprio nell’anno 2025 ricorrono i 180 anni dalla prima rappresentazione, avvenuta al Teatro alla Scala di Milano il 15 febbraio 1845. Per di più, la Direzione del Teatro ha scelto di inaugurare la stagione in una data posticipata rispetto alla tradizionale celebrazione di Sant’Ilario, patrono di Parma, che spesso si era rivelata non propriamente felice, poiché troppo a ridosso della festività del Natale. Questa scelta ha permesso di agevolare il complesso lavoro di prove, garantendo una preparazione più distesa.
Per molti anni Giovanna d'Arco è stata un'opera decisamente sottovalutata. Dopo la prima rappresentazione scaligera del 1845, ne seguirono una a Venezia nello stesso anno, una a San Pietroburgo nel 1850, una a Vienna nel 1857, due riprese milanesi del 1860 e del 1865, una a Parigi nel 1868 e l'ultima ad Alba nel 1892. Da quel momento in poi l'opera scomparve dai cartelloni, prima di riapparire nel 1941 a Berlino e successivamente nel 1951 a Napoli, Venezia e Parigi, dove riprese lustro grazie all'immortale arte di Renata Tebaldi. Sulla scia della Tebaldi sono poi seguite la Price, la Ricciarelli e prima fra tutte Montserrat Caballè, interprete indimenticabile, che hanno riportato alla luce un'opera del "primo Verdi" che, sebbene ancora un poco acerba, contiene però numerosi segni di una maturità artistica e drammaturgica incipiente.
La prestazione di Nino Machaidze nei panni di Giovanna si è rivelata incisiva e ben integrata nell’articolazione complessiva dell'opera. La pasta vocale della soprano si è distinta per una rimarchevole solidità in ogni registro, consentendo all’interprete, anche grazie al timbro robusto e a una percepibile sicurezza tecnica, di offrire una lettura del personaggio che ha privilegiato le sue sfumature più eroiche e pugnaci, rendendone bene il lato guerriero. A questo si è aggiunta una vocalità dotata di un volume imponente, capace di sostenere senza apparente sforzo i momenti più drammatici, mantenendo un’intonazione sempre precisa e una cura notevole del fraseggio. Tale sicurezza ha permesso alla Machaidze di affrontare anche le pagine più impervie della partitura con disinvoltura. Vi è però che questa opzione interpretativa non ha trovato il giusto bilanciamento in quelle scene in cui la partitura avrebbe richiesto una vocalità più raccolta, finendo per lasciare in secondo piano la componente mistica e spirituale del personaggio, quella Giovanna votata a una missione divina e intrisa di un’introspezione quasi mistica. Ne è scaturita, complessivamente, una resa interpretativa parziale, la quale, alla prova della durata dell’opera, non si è sottratta all’insidia di una certa monotonia.
Molto bene ha fatto il tenore Luciano Ganci nei panni, non facili, di Carlo VII, ruolo che aveva già interpretato con successo l’ultima volta che quest’opera era stata rappresentata a Parma, al suggestivo Teatro Farnese, nell’anno 2016. Ganci si conferma, nel repertorio verdiano, un punto di riferimento del panorama canoro italiano contemporaneo, grazie a una voce ricca nel timbro, sempre ben intonata, e a una tecnica solida che gli permette di affrontare con sicurezza anche le pagine più impegnative della partitura. La sua interpretazione si è distinta per l’attenzione al fraseggio, che ha contribuito a rendere il personaggio sfaccettato e credibile. Anche nei momenti più drammatici, il tenore ha mantenuto un’intonazione impeccabile e una proiezione sonora notevole, offrendo una performance di positivo impatto. Anche per lui, però, si è riproposto il rilievo di una certa uniformità espressiva, legata alla difficoltà di tradurre in emozione la raffinatezza della soluzione canora, che avverte spesso la tendenza all’algidità, se non è supportata, come gli è accaduto alla prima parmigiana, da una direzione orchestrale capace di integrare i suoi accenti con un colori e suoni efficaci, ma che si limita ad un piatto accompagnamento.
Una piacevole scoperta si è rivelato il baritono Ariunbaatar Ganbaatar nei panni di Giacomo, padre preoccupato di Giovanna. Nonostante la sua giovane età e la sua origine mongola, che gli comporta non lievi problemi linguistici, il maestro Ganbaatar ha mostrato grande sicurezza, sia nel fraseggio, sia nell’emissione, mettendo in mostra una padronanza tecnica di tutto rispetto. La voce è risultata di ottimo volume e ben timbrata, anche se in alcuni passaggi è parsa evidente una certa difficoltà nell'alleggerire sul fiato. Tuttavia, le intonazioni si sono mantenute sempre ottime per tutta la durata dell’opera, così come la dizione è stata chiara e precisa. La sua interpretazione sfaccettata, ha contribuito a delineare un ritratto credibile del personaggio, che gli ha fatto meritare un'ovazione ai saluti finali.
Di livello sono stati anche i ruoli di contorno di Delil e Talbot, sostenuti da Francesco Congiu e Krzysztof Baczyk.
Come immancabilmente bravo è stato il coro preparato dal maestro Martino Faggiani, che si è riconfermato, ma è ormai quasi di routine scriverlo, un asset artistico strategico, per la sua solida qualità, del Teatro di Parma.
Non altrettanto bene è consentito affermare per la direzione d’orchestra del maestro Michele Gamba, il cui approccio all’opera, seppur a tratti elegante, quasi a voler evocare non risolutive suggestioni belliniane o donizettiane, è parso mancare di vitalità, di esuberanza e di energia, così da risultare incapace di mantenere vivo il ritmo drammatico di un’opera del "primo Verdi". In un contesto musicale caratterizzato da soluzioni melodiche spesso iterate, l’assenza di un dinamismo incisivo ha decisamente appiattito l’insieme, rendendo l’ascolto diluito e poco coinvolgente. Questa sensazione è stata percepibile fin dalla Sinfonia, in cui i tempi lenti iniziali e una lettura priva di trasporto hanno delineato un’esecuzione priva di tensione, ma improntata ad una correttezza che nel primo Verdi non è risolutiva, se non è accompagnata dalla chiara percezione del linguaggio musicale del Maestro e della sua intrinseca energia terrigna. Al punto che la scelta di mantenere un andamento dilatato ha portato la durata complessiva dell’opera a due ore e venti minuti, ben oltre le consuete due ore di altre celebri esecuzioni, come quella, ad esempio, del maestro James Levine, a cui si deve la rilettura forse più innovativa di questa partitura. Per contro questa dilatazione dei tempi non è parsa andare di pari passo con una ricerca interpretativa volta a valorizzare profondità e contrasti della partitura e a giustificarne la scelta. Esito ne è stato un percorso interpretativo decisamente lineare e monocorde, quasi totalmente scarico, sia di quel trasporto "guerriero", che rappresenta un’anima dell’opera, sia del raccoglimento mistico, che ne coglie l’altra anima.
La Filarmonica Arturo Toscanini ha offerto una buona prova complessiva, distinguendosi per il velluto sonoro degli archi e un buon volume.
Sul palcoscenico ha invece decisamente brillato la regia di Emma Dante, accolta ai saluti finali con un’ovazione che al Regio di Parma non si sentiva da tempo per un/una regista. La sua visione è riuscita a immergere lo spettatore in una narrazione in cui i personaggi, con le loro emozioni e i loro conflitti, hanno prevalso sul contesto storico, accompagnati da ambientazioni volutamente indefinite e da una simbologia accessibile e di forte impatto visivo. Particolarmente suggestive sono risultate la scena dei fiori e quella che sarebbe dovuta essere ambientata nella piazza antistante la Cattedrale di San Dionigi a Reims, che hanno saputo coniugare bellezza estetica e funzionalità. Non tutto, però, ha convinto fino in fondo: i movimenti scenici, per quanto spesso efficaci, sono apparsi a tratti eccessivi, mentre la gabbia aurea con colonne corinzie, in cui viene rinchiusa Giovanna, ha suscitato qualche perplessità per la sua limitata credibilità narrativa, richiamando in modo fin troppo ironico l’immagine di una voliera. Questi dettagli non hanno tuttavia intaccato il valore complessivo di una regia che è stata capace di offrire una lettura originale e facile da seguire, per un'opera decisamente complicata da mettere in scena.
Nel complesso, il palcoscenico ha offerto quindi una base solida per uno spettacolo che avrebbe potuto ambire a risultati migliori, ma che, nel suo complesso, è risultato soddisfacente.