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Turandot • Gamba

  • Lorenzo Giovati
  • 8 lug 2024
  • Tempo di lettura: 5 min

Aggiornamento: 10 lug 2024

Milano, Teatro alla Scala. 4 Luglio 2024.

Nel centenario della morte di Giacomo Puccini, il Teatro alla Scala ha riproposto Turandot, suo ultimo capolavoro, completato postumo da Franco Alfano (a sua volta sotto la supervisione assillante di Arturo Toscanini) e riproposto in questa versione.


La regia di questa Turandot è stata firmata dal regista Davide Livermore che ha scelto, in continuità con la sua linea registica (che tende a volte un poco a ripetersi), di collocare le scene in ambientazioni vagamente fiabesche (a modo loro), cupe, grigie, inquinate e un poco squallide, come possono esserlo i sobborghi delle grandi megalopoli, ma certamente orientaleggianti e ben contestualizzabili in una Cina moderna, resa distinguibile dal tipo di costruzioni, dai costumi, dalle meravigliose e suggestive capigliature, dagli ideogrammi, dalle lanterne e addirittura dalle foglie che compongono il giaciglio pensile di Turandot. La regia, che comunque ha rappresentato uno degli elementi più interessanti della serata, è stata però anche eccessivamente carica di simboli, fisici e gestuali, alcuni dei quali potevano forse essere evitati, come il cavallo che scorrazzava sul palcoscenico durante il finale di tutti gli atti, tanto scenografico, quanto rumoroso; o come la nudità ostentata del Principe di Persia, che non sarebbe stato meno Principe, anche se si fosse presentato dignitosamente vestito. Non felice è parsa anche la scelta di amplificare in parte (nel senso che alcuni erano amplificati, ma i "Nessun dorma" non lo erano) i cori fuori scena del terzo atto. Ping, Pong e Pang, nella lettura di Livermore, portano sul viso una maschera di Calaf, quasi a simboleggiare, come se non lo si fosse capito, che essi rappresentano, in realtà, la proiezione di risvolti interiori del principe ignoto, che lavorano per convincerlo e per condizionarlo (ciò è anche testimoniato dal fatto che Calaf ha pronunciato con il labiale tutta la scena del Fermo che fai!). La scena è stata quasi sempre dominata da un grande tondo, calato dall'alto, raffigurante numerose immagini dinamiche, volte ad evocare, con il loro movimento e con il loro cromatismo molto suggestivo, i momenti emotivi della vicenda scenica, realizzate meravigliosamente da D-WOK, con cui Livermore ha già collaborato numerose volte, anche in occasione di un recente Trovatore al Teatro Regio di Parma. Il vero momento toccante è però arrivato, dopo la morte di Liù, dove notoriamente la mano di Puccini smise di comporre a causa dell'aggravarsi della malattia a Bruxelles e dove, sempre notoriamente, il 25 Aprile 1926 Arturo Toscanini arrestò la prima rappresentazione, girandosi verso il pubblico e pronunciando la famosa frase "qui Giacomo Puccini morì". Il finale di Alfano venne poi proposto solo nelle recite successive. In occasione del centenario della morte, anche senza Toscanini in buca, il regista ha riproposto la stessa idea, facendo comparire nel tondo pendente dall'alto una foto di Puccini, con la frase di Toscanini riportata. Il teatro si è quindi illuminato dei soli lumini, consegnati dalle maschere al pubblico durante l'intervallo, ad accogliere un momento di silenzio e di raccoglimento.  Di rara intelligenza è stata anche la scelta di far apparire molto più spoglio il palco durante il finale di Alfano, come se fosse stata la musica originale di Puccini a riempirlo in precedenza.

La componente vocale dello spettacolo ha registrato esiti alterni.


E’ ritornata alla Scala, dopo aver vestito i panni di Elisabetta di Valois nel recente Don Carlo inaugurale, la diva Anna Netrebko, nelle vesti della protagonista. Fin dall'inizio de In questa reggia ha delineato una principessa spontanea, vocalmente ancora sontuosa, senza però riuscire, né ad essere dominante, né ad essere gelida, né infine ad essere incorporea e misteriosa (per qui ripercorrere alcune delle chiavi interpretative che la storia ha proposto). Vocalmente si è però riconfermata la grande cantante di sempre, con un'emissione solida in tutti i registri (anche se un poco dilatata in quello inferiore). Gli acuti sono sempre stati intonati e spontanei, così come pregevoli sono stati il fraseggio e la dizione.


Al suo fianco, ma non al suo pari, vi è stato il Calaf di Yusif Eyvazov, che già si era proposto nel ruolo anche al Teatro di San Carlo a Napoli, in occasione della scorsa inaugurazione della stagione lirica. Il tenore azero ha cantato con sicurezza, con baldanza e con generosità, ostentando peraltro un mezzo vocale non particolarmente gradevole e non è andato oltre. Il suo è stato un Calaf monocorde, privo di fascino e non di rado inutilmente muscolare. Non si è sottratta alla sua mediocrità interpretativa nemmeno l’aria Nessun Dorma, cantata quasi a squarciagola, come peraltro anche prima il Non piangere Liù, concluso con una nota tenuta a lungo, in ostentazione di un atletismo vocale non sufficiente a riscattare la precedente modesta esecuzione. Il suo fraseggio e la sua dizione sono inoltre stati spesso imprecisi e confusi, come nel finale del secondo atto, quando nella frase "Ti voglio tutta ardente" è stato eliso il "tutta" presumibilmente per poter raggiungere un acuto, neppure particolarmente nitido.


Molto brava e realmente nella parte, si è invece dimostrata la soprano Rosa Feola, che ha interpretato la giovane Liù con voce piena, leggera e delicata. Emotivamente è stata partecipe, anche se non molto nel Signore ascolta, mentre molto di più nel Tu che di gel sei cinta, proponendo comunque una performance da eccellente professionista. La Feola non sarà forse una Liù di statura memorabile, ma, in scena, è stata forse l’artista che più ha reso, in modo pieno e fedele, il suo personaggio. 


Il Timur di Vitalij Kowaljow è invece apparso un poco evanescente dal punto di vista interpretativo, seppur abbia convinto per la sua voce scura, impostata, intonata e di potenza notevole.


I tre faccendieri Ping, Pang e Pong sono stati interpretati rispettivamente da Sung-Hwan Damien Park, Chuan Wang e Jinxu Xiahou, che hanno sufficientemente caratterizzato i loro personaggi, con voci appropriate, seppur forse con qualche leggera imprecisione della dizione, in particolare del baritono.


Raúl Giménez ha impersonato un Imperatore Altoum un poco affaticato, ma nel complesso pregevole.


La direzione del maestro Michele Gamba, chiamato a sostituire il maestro Daniel Harding, ha puntato tutto sulla rutilanza sonora e sulla rapidità dei tempi, assai meno sulla profondità della lettura e sulla ricerca dell’anima intima dell’opera e dei suoi personaggi: ad eccezione forse del terzo atto, in cui maggiore è stata la fluidità melodica. Ne è esitata una Turandot facile e piacevole da ascoltare, ma anche tendenzialmente superficiale e, alla lunga, anche un poco monotona.


All'idea esecutiva del maestro Gamba non è apparsa essere adatta l'orchestra del Teatro alla Scala, che è stata non di rado un poco chiassosa e inelegante. Buona è stata comunque la prestazione degli archi, meno quella degli ottoni, troppo spesso imprecisi e tremolanti. Ottima è stata invece la sezione delle percussioni.


Il coro del Teatro alla Scala, preparato ancora una volta dal maestro Alberto Malazzi, si è riconfermato come eccellente in termini di velluto, compattezza e volume, seppur non agevolato dalla posizione imposta dal regista sul palco, che non ha per nulla facilitato (soprattutto nel primo atto) il sincrono tra orchestra e coro, spesso in ritardo.


In sintesi, quindi, una Turandot discreta, ma certamente non memorabile.


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