Falstaff • Gatti
- Lorenzo Giovati
- 19 gen
- Tempo di lettura: 6 min
Milano, Teatro alla Scala. 18 Gennaio 2025.
Dopo la "Forza" inaugurale, il Teatro alla Scala di Milano ha tratto dal genio di Giuseppe Verdi, anche il secondo titolo di questa nuova stagione 2024/2025, ovvero Falstaff, l'ultimo dei suoi capolavori operistici. Grande attesa si nutriva per questa produzione, sia per la ripresa della storica regia di Giorgio Strehler, sia per la direzione del maestro Daniele Gatti, prossimo all'insediamento come direttore artistico del teatro milanese, sia infine per un cast vocale che, almeno sulla carta, faceva presagire un’interessante realizzazione. Così però non è stato, a dimostrazione plastica di come, a volte, la sommatoria dei valori artistici in campo non si traduca automaticamente in un equivalente valore artistico complessivo dello spettacolo.
Proprio sulla direzione del maestro Gatti si concentravano grandi aspettative, alimentate dai successi ottenuti in passato con questa stessa opera, che lo hanno visto trionfare in prestigiosi teatri come quelli di Firenze, Amsterdam, Bologna, Roma e Milano. Proprio sulla direzione del maestro Gatti gravitano le prime e più importanti riserve sull’esito dello spettacolo, quantomeno stando a quanto si è constatato nella recita di sabato 18 gennaio, a cui questa recensione si riferisce. L'interpretazione proposta, pur decisamente rivista rispetto al passato, non ha raggiunto lo stesso livello di brillantezza, di raffinatezza e di incisività. Fin dalle prime battute, il suono orchestrale si è rivelato piuttosto opaco, sordo e privo di quella vivacità e di quella leggerezza che sono parte integrante dello spirito dell'opera. L'orchestra, sotto la bacchetta del maestro Gatti, è risultata non di rado greve, appesantendo il fraseggio musicale e privandolo di dinamicità, nonché povera di colori e di sfumature, al punto da sconfinare, in alcuni frangenti, in eccessi di volume, che hanno penalizzato le voci, già per altri motivi in difficoltà, senza però compensare una generale monotonia. Sono mancati i colori vivaci e i cambi di tempi, talvolta talmente rigorosi da rendere i dialoghi scenici innaturali. Anche i momenti più brillanti, come quelli del primo atto, hanno sofferto di un suono appiattito, privo di energia e con trilli smorzati, che hanno annullato l’effervescenza propria della scrittura verdiana. Nei momenti che avrebbero richiesto un cambio di registro emotivo o una maggiore esuberanza, come i finali d’atto, l'orchestra ha faticato a trovare quel gioco di colori e di contrasti che avrebbe potuto esaltare la narrazione musicale. La direzione del maestro Gatti è sembrata quindi troppo controllata, incapace di cogliere appieno lo spirito giocoso e brioso dell’opera, trasformando la leggerezza in rigidità e privando l’esecuzione di vivacità. Conseguenza ne è stata che allo spettacolo è mancata la cifra narrativa ed interpretativa che sarebbe stata necessaria per mantenere su un buon livello qualitativo uno spettacolo che presentava altre e diverse carenze del palcoscenico. Non meno problematico, peraltro, è stato il rapporto tra il podio e le voci. Il maestro Gatti non è parso essere riuscito a svolgere un lavoro pienamente ineccepibile sulle parti vocali, con i cantanti che a tratti sembravano procedere senza un pieno controllo, spesso non andando a tempo con l'orchestra. Questo disequilibrio si è rivelato anche in un fraseggio generalmente poco curato e in una altrettanto diffusa mancanza di nobiltà di canto. Inoltre, aspetto tutt’altro che trascurabile, le voci sono apparse spesso difficili da sentire, anche per effetto di un'orchestra che a tratti copriva completamente i cantanti. La compagine femminile, in particolare, ha cantato quasi sempre in piano, al punto che momenti chiave come il quartetto a cappella della seconda scena del primo atto sono risultati smorzati: più che cantare, le comari sembravano quasi chiacchierare, con suoni e parole poco definiti e una linea musicale difficilmente percepibile.
La componente vocale della serata, se considerata nelle singole performance dei vari interpreti, ha offerto momenti di pregio, ma nel complesso dello spettacolo è emersa una certa discontinuità, che ha compromesso la coesione musicale.
Pochi altri cantanti possono vantare di aver fatto proprio un ruolo come Ambrogio Maestri con Falstaff, un personaggio che ha interpretato nei teatri di tutto il mondo, sempre raccogliendo consensi entusiastici e successi strepitosi. Tuttavia, l’usura vocale è apparsa decisamente percepibile, nonostante un’età ancora non particolarmente avanzata. Vocalmente, la prestazione è risultata non di rado segnata dalla fatica, oltre che da evidenti difficoltà tecniche. I falsetti, che rappresentano uno dei tratti più distintivi e delicati del personaggio, sono risultati spesso poco limpidi e forzati, tradendo una mancanza di naturalezza. Emblematico in tal senso è stato il primo falsetto, accolto addirittura da un “buh” proveniente da un palco, non del tutto immotivato, ma certamente non garbato ed evitabile, soprattutto quando è in corso l’esecuzione. Le note più acute, inoltre, hanno rivelato fatica, risultando spesso difficili da raggiungere e mantenere, con chiusure poco eleganti che hanno penalizzato la linea musicale. A ciò si aggiunge una tendenza, in alcuni momenti, a sconfinare nel declamato ed a consegnare la definizione del personaggio più alla presenza scenica ed alla recitazione, che al canto. L’impressione complessiva è stata quella di un'inaspettata fragilità per un interprete della sua esperienza e della sua fama. Dal punto di vista interpretativo, nonostante la profonda conoscenza del ruolo, il consumato mestiere che Maestri porta in scena gli ha comunque permesso di ottenere buoni consensi. Tuttavia, il ritratto che è stato fatto Falstaff è apparso meno nobile del necessario. Questo personaggio, infatti, non è solo un mattatore comico: prima di tutto è un “Sir,” un uomo di rango, la cui comicità vive di contrasti tra la sua aristocratica dignità e il suo spirito burlesco. Nonostante alcuni momenti di pregio e il carisma innegabile dell’interprete, la prestazione è quindi risultata sensibilmente al di sotto delle aspettative.
Molto attesa era anche la prestazione di Luca Micheletti nei panni di Ford. L’artista non ha deluso le aspettative, confermando le sue straordinarie doti attoriali. Con una presenza scenica quasi magnetica, è riuscito a catalizzare l’attenzione su di sé con naturalezza, grazie a movimenti studiati e un’interpretazione teatrale di grande intensità. Dal punto di vista vocale, Micheletti si è distinto come un ottimo fraseggiatore, unico interprete della serata in grado di rendere chiaramente udibili sia le parole, che le note, dimostrando un’attenzione notevole per il testo e per la musica. Tuttavia, pur mostrando intonazioni impeccabili e un'interpretazione curata, Ford non sembra essere il ruolo che meglio valorizza le sue qualità vocali all’interno di un repertorio verdiano che forse dovrebbe esplorare con cautela. La sua resa è stata tecnicamente solida e complessivamente apprezzabile, ma la sua voce non possiede l’ampiezza ideale per un ruolo come quello di Ford, che nel repertorio verdiano richiede una proiezione più generosa e un volume più corposo. Nonostante questo, Micheletti ha saputo offrire un prestazione professionale, confermandosi un artista di grande professionalità e indubbio pregio.
Il quartetto delle donne è stato complessivamente buono.
A partire dall'ottima Rosa Feola nel ruolo di Alice Ford, che si è distinta per una voce bella, pulita e perfettamente intonata, anche se, purtroppo, non sempre adeguata a questo specifico ruolo. Sebbene la sua vocalità sia di qualità indiscutibile, in alcuni momenti la voce si è persa nel tessuto orchestrale, penalizzando la resa complessiva. Anche sul piano interpretativo, il personaggio di Alice non sembra adattarsi completamente alle sue caratteristiche artistiche. Tuttavia, va sottolineato il suo ottimo lavoro nella scena con Falstaff nel secondo atto, in cui ha saputo coniugare brillantezza vocale e vivacità interpretativa e scenica, restituendo in modo convincente il carattere ironico e giocoso della situazione.
Marianna Pizzolato ha interpretato il ruolo di Mrs. Quickly con una voce bella, intonata e morbida, seppur non particolarmente voluminosa, riducendo un poco l’impatto del personaggio. Questo si è notato soprattutto durante le sue due "missioni" da Falstaff, dove non è sempre riuscita a tenergli testa vocalmente e interpretativamente. Tuttavia, il fraseggio curato e l’intonazione precisa hanno conferito eleganza alla sua interpretazione.
Martina Belli ha impersonato una Meg Page di ottima presenza scenica e vocalmente appropriata.
Eccellente è stata la Nannetta di Rosalia Cid, giovanissima soprano dalla bella voce chiara e dall'emissione spontanea e perfettamente intonata, che con leggerezza e spensieratezza ha interpretato benissimo il ruolo affidatole.
Al suo fianco è apparso non più che corretto il Fenton di Juan Francisco Gatell, che dispone di voce ben proiettata e chiara, ma forse non sempre morbida e leggera. Buona comunque è stata la cura del fraseggio e delle intonazioni. Interpretativamente è risultato vivace.
Ben coesa è apparsa anche la coppia Bardolfo-Pistola, portata in scena dal tenore Christian Collia e dal basso Marco Spotti, entrambi particolarmente calati nella parte.
Molto bene ha fatto anche Antonino Siragusa nel dare corpo al personaggio del Dottor Cajus, con interventi sempre pertinenti e una voce che si è adattata perfettamente al ruolo.
L'unica vera attrattiva della serata, esclusa la musica di Verdi, è stata poi la messa in scena di Giorgio Strehler, ripresa con cura da Marina Bianchi. Le scene, non ambientate in Inghilterra, ma nella "bassa" del territorio parmigiano, continuano, nonostante i quasi quarant’anni trascorsi, a sposarsi perfettamente con l’opera, restituendo un’ambientazione esteticamente bella e funzionale, anche se iniziano a mostrarsi i segni del tempo, con qualche idea che non è più molto fresca e innovativa. Rimane comunque magico il modo in cui Strehler utilizza il palcoscenico e la prospettiva, rendendo lo spazio quasi infinito attraverso giochi di luce, profondità e un uso calibrato degli elementi scenografici.
Lo spettacolo, nel complesso, è quindi risultato un poco deludente e non ha funzionato appieno, lasciando l'impressione di un'occasione mancata per valorizzare al meglio le molteplici componenti artistiche coinvolte. Non il modo migliore per il maestro Gatti, verrebbe da considerare, di presentarsi al pubblico milanese con il suo nuovo titolo di direttore musicale, in un teatro che merita esecuzioni all’altezza della sua fama e tradizione.