Beethoven • Barenboim
- Lorenzo Giovati
- 2 giorni fa
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Milano, Teatro alla Scala. 20 Novembre 2025.
«Grazie maestro Barenboim per la West-Eastern Divan Orchestra»: così era scritto sul grande striscione esposto da alcuni attivisti pro-palestina all’ingresso del Teatro alla Scala prima del concerto di giovedì, che ha segnato il ritorno di Daniel Barenboim sul podio del Piermarini. Il direttore argentino, già alla guida musicale della Scala dal 2011 al 2015, è riapparso per un programma interamente beethoveniano, il cui risultato, pur nell’eccezionalità dell’occasione, è parso però globalmente inferiore alle aspettative, soprattutto se misurato in comparazione con le meravigliose ultime apparizioni salisburghesi del maestro medesimo.
La prima parte era dedicata al Concerto per violino, con Lisa Batiashvili quale solista. La violinista georgiana ha fornito una prova di raro livello: non solo è stata impeccabile nella precisione tecnica e nella fluidità del fraseggio, ma se è dimostrata dotata di quella capacità di “respirare” insieme all’orchestra che solo le interpreti più mature possiedono. La Batiashvili ha sviluppato un Beethoven poetico e intenso, piegato verso un lirismo elegante e ricco di sfumature timbriche. Il legato è stato continuo e si è inserito con naturalezza nel tessuto orchestrale, tanto da far sembrare organica la sua scelta di unirsi alla fila dei primi violini nei passaggi solo orchestrali: un gesto simbolico, è vero, ma anche coerente con la visione di un concerto integrato, non basato su un virtuosismo isolato, ma su una dialettica costante tra solista e orchestra. Il suono, rotondo e levigato, è sempre rimasto luminoso anche nelle zone più basse del registro, e ha conservato una notevole morbidezza anche nelle frasi più sospese.
Sul versante direttoriale, tuttavia, la costruzione del Concerto non è risultata altrettanto convincente. Barenboim ha optato per tempi complessivamente molto dilatati, soprattutto nel primo movimento, in cui l’impostazione meditativa del maestro ha generato un flusso talvolta faticoso. Il Larghetto, anch’esso lento, tanto quanto il primo movimento, ha però funzionato meglio, grazie alla cantabilità naturale delle frasi e alla scelta di un colore omogeneo, quasi cameristico, che ha trovato un equilibrio interessante. Il terzo movimento è infine risultato il più riuscito: ben articolato, con dinamiche costruite con precisione e un rapporto più organico con la solista, che è parsa essa stessa stimolare una direzione più viva.
Come bis la Batiashvili ha proposto, insieme ad alcuni orchestrali della sezione degli archi, la celeberrima Aria sulla quarta corda di Johann Sebastian Bach, eseguita con levità e nitore.
La seconda parte del concerto ha poi proposto la Quinta Sinfonia di Beethoven. Ed anche qui, sin da subito, si è avvertita un sensibile deficit di energia e di vitalità. L’attacco del primo movimento, pur scolpito nel dettaglio, è mancato dell’urgenza che ne costituisce la cifra. Il maestro Barenboim, fedele a una visione riflessiva e molto legata, ha stemperato la drammaticità del celebre motivo d’apertura, che è sembrato affievolito. È stata una scelta interpretativa sicuramente legittima e pensata, ma che avrebbe richiesto forse un’orchestra in grado di mantenere tensione e definizione timbrica: condizioni, queste, che la compagine scaligera non ha davvero garantito. Il risultato è stato un primo movimento tecnicamente accurato, ma poco incisivo, senza quella forza motiva che trascina l’ascoltatore da un episodio all’altro. Il secondo movimento è stato il più convincente dell’intera sinfonia. Qui le variazioni sono emerse ben scolpite, le linee degli archi si sono mosse con eleganza e la costruzione dei piani sonori ha restituito un Beethoven apprezzabilmente intimo. Il terzo movimento è invece risultato debole, come se mancasse una visione unitaria. Il celebre passaggio degli archi nei pianissimo è stato ben controllato, ma l’atmosfera è rimasto troppo seduta, priva del senso di allerta che prepara l’irruzione finale. La transizione verso il quarto movimento è risultata così meno efficace. Il finale, a sua volta, è risultato spento: dettagliato nel fraseggio, ma privo di quella brillantezza luminosa, quasi solare, che dovrebbe esplodere nel trionfo conclusivo.
Quanto all’Orchestra della Scala, la prova non è stata all’altezza della serata. Gli archi hanno mostrato un livello molto buono, compatti e flessibili, con un suono rifinito e una buona uniformità. Le percussioni sono invece risultate spesso invadenti, sovrapponendosi alla struttura, anziché sostenerla. Le trombe, per parte loro, hanno sofferto di problemi di intonazione pressoché continui, producendo un suono ruvido, instabile e talvolta non gradevole; anche gli altri ottoni non hanno brillato per coesione né accuratezza. Approssimativi i fiati. La somma di questi fattori ha prodotto un suono orchestrale globalmente piatto, poco tendente alla luce e con una scarsa vibrazione interna, che certamente non aiutato il maestro Barenboim nel suo lavoro. Altra cosa rispetto all’ausilio che al maestro medesimo, quanto meno nelle più recenti apparizioni salisburghesi, ha assicurato al maestro la “sua” West-Eastern Divan Orchestra, offrendogli un contributo determinante perché le fragilità della direzione si traducessero in una preziosa umanizzazione del valore musicale.
L’esito complessivo è stato dunque quello di una serata importante come evento, carica di significati, ma musicalmente non da ricordare.
















