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Schubert/Berio e Mahler • Makela

  • Lorenzo Giovati
  • 7 set
  • Tempo di lettura: 4 min

Aggiornamento: 8 set

Lucerna, KKL. 1 Settembre 2025.

Il Festival di Lucerna, fedele alla sua vocazione originaria, continua a imporsi come crocevia estivo fra eccellenza orchestrale e curiosità programmatica. Non è soltanto l’eredità dell’orchestra fondata dal maestro Abbado a conferire prestigio alla manifestazione, ma è anche una trama di inviti e di accostamenti che, nel giro di pochi giorni, riunisce compagini fra le più influenti del panorama europeo. In questo contesto la Royal Concertgebouw Orchestra di Amsterdam ha proposto quest’anno due appuntamenti ravvicinati sotto la guida del loro direttore principale designato dal 2027, il giovanissimo Klaus Mäkelä, la cui ascesa rapidissima ha alimentato entusiasmi e scetticismi, come ben può avvenire alla presenza di un talento che eccede l’ordinarietà. E’ stato scritto da alcuni che la successione serrata di impegni che oggi contraddistinguono il percorso artistico del maestro Mäkelä non ne favorirebbe un rapporto profondo con le orchestre. Tuttavia il dato musicale, nella serata di lunedì scorso, racconta tutt’altra un’altra storia: il lavoro sul suono, la scelta degli equilibri e la costruzione architettonica delle composizioni proposte hanno mostrato un pensiero chiaro, coerente, spesso personale, ma soprattutto in approccio di grande e palpabile talento.


La prima parte, incentrata sul Rendering per orchestra di Luciano Berio nel centenario della nascita del compositore, ha evidenziato la capacità del maestro Mäkelä di tenere insieme due mondi sonori apparentemente inconciliabili. Berio, com’è noto, prese i frammenti della Sinfonia in re maggiore che Schubert lasciò allo stato di abbozzo e li “restaurò” con un intonaco modernissimo, fatto di celesta, arpa, vibrafono, sottili filigrane dei legni e velature armoniche. Del maestro Mäkelä si è apprezzata la capacità di far respirare questa dialettica di materiali senza irrigidirla in contrapposizioni schematiche: le porzioni schubertiane sono state tenute luminose, cantabili; le zone beriane, invece, sono affiorate quasi sospese. Il gioco delle lontananze è stato costantemente leggibile grazie a una gestione analitica delle dinamiche, con pianissimi realmente controllati. Bello e a fuoco è stato il terzo movimento, dove la scrittura si fa più mobile: Mäkelä ha imposto un passo sveglio, ma mai nervoso, facendo emergere i disegni contrappuntistici con naturalezza, e la Concertgebouw gli ha risposto con un suono levigato, privo di opacità, che in sala ha acquisito una profondità quasi cameristica.


La seconda parte, con la Sinfonia n. 5 di Gustav Mahler, ha offerto la cartina di tornasole più significativa. L’approccio del maestro Mäkelä, lontano dalla retorica muscolare, è stato quello di una lettura che ha cercato la coerenza e la trasparenza del dettaglio. Nel Trauermarsch iniziale il tempo tendenzialmente comodo ha dato spazio alla pronuncia delle cellule ritmiche. Da segnalare il meraviglioso e perfetto intervento della prima tromba del Concertgebouw Omar Tomasoni che è stato straordinario, superlativo per suono, per intonazione e per sostegno. Degna di nota è stata anche la calibratura degli accenti che il maestro Mäkelä ha distribuito con intelligenza e in posizioni meno convenzionali.

Nel secondo movimento, Stürmisch bewegt, la bacchetta ha scelto una drammaturgia serrata, dai profili più taglienti, in cui i fiati talvolta hanno esibito un grano volutamente ruvido, ma sempre iscritto in una visione organica.

Lo Scherzo, baricentro dell’intera architettura, è stato il passaggio più eloquente del rapporto fra direttore e orchestra. Qui la Concertgebouw ha dispiegato corni dal suono vellutato e pieno. Il maestro Mäkelä, per parte sua, ha privilegiato l’elasticità, cercando un equilibrio tra la nobiltà del gesto e la spinta centrifuga dei ritmi. Il risultato è stato uno Scherzo travolgente, in cui le voci secondarie e il contrappunto sono state sempre percepibili.

Nell’Adagietto il direttore ha adottato un tempo misurato, lontano, tanto dai rallentamenti della tradizione, quanto da una lettura sbrigativa o superficiale. Gli archi hanno cantato con un suono chiaro, privo di eccessi, privilegiando un legato omogeneo e un disegno coerente delle arcate. Ne è scaturita una pagina introspettiva e non lamentosa.

Il Rondo-Finale ha messo infine in luce la vocazione architettonica del gesto del maestro Mäkelä. La partitura, con il suo gioco di fugati e di rincorse tematiche, è stata trattata con un tempo brioso, ma mai scomposto, che ha permesso ai legni di articolare con nitidezza. Notevolissima la rifinitura dei tromboni, compatti, intonati, mai stridenti, e della tuba, che ha sostenuto senza appesantire. Le ultime pagine, travolgenti per energia, hanno avuto alle spalle una costruzione severa: non un’accelerazione di maniera, ma un progressivo crescendo fino allo scatto conclusivo, sicuro e luminoso.


L’orchestra è stata protagonista in ogni momento. Gli archi, morbidi, ma solidi, hanno mostrato grande controllo delle dinamiche. I legni hanno offerto interventi sempre chiari e di carattere. Gli ottoni hanno confermato la tradizione della Concertgebouw: corni compatti, trombe dal suono insieme cantabile e squillante, tromboni eleganti e ben calibrati. Le percussioni, misurate, ma incisive, hanno dato sostegno e precisione, con timpani impeccabili. Ciò che ha colpito di più è stata però l’unità dell’ensemble, capace di seguire ogni minimo gesto del direttore senza perdere la propria identità: una qualità che in Mahler trasforma un’orchestra da semplicemente potente a davvero eloquente.


Quanto al profilo del maestro Mäkelä, la serata lo restituisce come un interprete in rapida maturazione, già consapevole della necessità di coniugare lucidità formale e calore del gesto. Il suo Mahler non cerca l’effetto esteriore, ma ne cura la respirazione profonda. Se in Rendering la distinzione fra Schubert e Berio è parsa esemplare per pulizia di campo, nella Quinta ha prevalso una visione chiara, asciutta e modernamente lirica.


In definitiva, un concerto che conferma la statura della Royal Concertgebouw Orchestra e chiarisce, oltre i luoghi comuni, il profilo del maestro Mäkelä: non l’enfant prodige travolto dagli incarichi, ma un musicista che studia la partitura con rigore, costruisce il suono con intelligenza e, soprattutto, controlla l'orchestra alla perfezione.


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