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Regio196

  • Lorenzo Giovati
  • 20 mag
  • Tempo di lettura: 4 min

Parma, Teatro Regio. 16 Maggio 2025.

Il 16 maggio 1829 si aprivano per la prima volta i battenti di uno dei teatri più belli e storicamente ricchi del nostro paese. Il Teatro Regio di Parma ha scelto di celebrare i suoi 196 anni con un concerto, sulla scia di quanto già avvenuto l'anno scorso. Ma se allora l'anniversario era stato accompagnato da una serata di ampio respiro, quest'anno le cose sono andate diversamente: annunciato inizialmente un concerto verdiano con la Filarmonica Toscanini, il Coro del Teatro Regio e il maestro Alessandro Palumbo, la serata è stata infine completamente riconfigurata. La Filarmonica era infatti impegnata il 16 maggio al Teatro Manzoni di Bologna per un concerto in occasione  degli 80 anni della Liberazione con Ivor Bolton, e così Parma ha ripiegato su un concerto con ex-allievi dell’Accademia Verdiana, accompagnati al pianoforte dal maestro Gianluca Ascheri.


Per quanto la scelta sia stata motivata (e in parte nobilitata durante presentazione della stagione lirica 2026, anticipata in questa occasione) di voler portare ogni anno giovani interpreti per festeggiare il compleanno del teatro, resta il fatto che quanto proposto sul piano musicale non è stato all’altezza dell’occasione. In apertura della serata, il direttore dell’Accademia maestro Francesco Izzo ha brevemente contestualizzato la serata, sottolineando come il Regio continui a investire nel futuro della lirica, motivando la scelta di affidare ogni anno, in occasione del compleanno del teatro, uno spazio ai giovani cantanti dell’Accademia Verdiana. Il concerto "Regio196" è stato dunque presentato come l'inizio di una scelta permanente, anche se di fatto ha assunto, in questa occasione, la forma di una scelta di ripiego.


Un’intenzione nobile si però è scontrata con una realizzazione artistica non appagante. Il problema non è stato tanto la qualità assoluta degli interpreti, tutti dotati e promettenti, quanto la generale mancanza di un rigore tecnico e una consapevolezza espressiva. In quasi tutte le esibizioni si è percepita una certa trascuratezza nel fraseggio, una tendenza a chiudere le frasi in modo poco rifinito, una approssimazione nell’uso delle legature e, più in generale, una concezione del canto più fonatoria che musicale: gli acuti sono sembrati spesso il fine e non il mezzo, raggiunti con forza, e questo è valso praticamente per tutti gli interpreti, indipendentemente dalla voce o dall’aria affrontata. Non ci si aspetterebbero tali carenze da un corso che si presenta come un Corso di Alto Perfezionamento in repertorio verdiano.


Il pianista Gianluca Ascheri è risultato il vero punto di forza della serata: accompagnamenti curati, sempre adeguati alla scrittura e attenti nelle dinamiche, capaci di sostenere e anche valorizzare i solisti. Ha sfoggiato un fraseggio pianistico sensibile e narrativo. La sala l’ha riconosciuto con il più caloroso degli applausi.


Matteo Pietrapiana, baritono, ha aperto la serata con la cavatina di Figaro dal Barbiere di Siviglia, eseguita con brio e con un buon controllo, anche se con un certo contenimento espressivo. Si è poi confermato solido nell’aria “Eri tu” da Un ballo in maschera, senza guizzi particolari, ma con un apprezzabile equilibrio.


Francesco Congiu, tenore, ha affrontato “Io la vidi” dal Don Carlo con un’esuberanza non sempre giustificata dalla scrittura, e con una linea vocale a volte non omogenea, in cui la generale mancanza di cura ha un po' compromesso l'efficacia musicale complessiva. Molto meglio è andata nell’aria “Fuor del mar” da Idomeneo, dove il controllo è parso più saldo e la musicalità più coerente, con il timbro e una gestione tecnica più controllata rispetto alla prima parte.


Carmen Lopez, soprano, ha affrontato due sfide impegnative: una mozartiana e una verdiana. In “Martern aller Arten” dal Ratto dal serraglio, l’esito è stato piuttosto incerto: nonostante l’intonazione corretta, il fraseggio è apparso spesso scomposto, con una certa rigidità nella gestione dell'agilità. Meglio è andata con “Caro nome” dal Rigoletto, dove l’agilità vocale è stata rispettata, anche se non sempre accompagnata da una vera levità esecutiva.


Emil Abdullaiev, basso, ha eseguito con partecipazione “Vieni, o Levita” da Nabucco, pur con una vocalità poco adatta al ruolo: timbro asciutto e proiezione limitata. Più efficace e brillante, anche per attitudine scenica, nell’aria della calunnia da Il barbiere di Siviglia.


Ilaria Sicignano, soprano, è risultata forse la più convincente sul piano interpretativo. “L’altra notte in fondo al mare” da Mefistofele è stata resa con intensità partecipe e con una buona linea vocale, nonostante un acuto finale troppo spinto. In “Tu che le vanità” da Don Carlo si è distinta per sicurezza.


QianHui Sun, mezzosoprano, ha affrontato due arie: “Condotta ell’era in ceppi” dal Trovatore e “Mon cœur s’ouvre à ta voix” da Samson et Dalila. Nella prima è parsa timidamente trattenuta, pur nell’ambito di una correttezza generale; nella seconda ha mostrato maggiore morbidezza e un timbro più avvolgente, lasciando una buona impressione.


I momenti d’assieme hanno mostrato una tenuta altalenante. Il terzetto da I Lombardi (“Qual voluttà trascorrere…”) ha evidenziato squilibri tra le voci: Congiu, con una vocalità più robusta, ha spesso coperto gli altri due interpreti, mentre la Lopez è risultata piuttosto defilata. Il sestetto finale dal Don Giovanni, pur ben costruito scenicamente con scambi di ruoli vocali (Abdullaiev come Leporello, Sicignano come Donna Elvira), ha sofferto di alcuni sfasamenti nei volumi e nella coesione complessiva.


Infine, il doppio bis dal Libiamo ha scaldato il pubblico anche grazie all’entrata scenografica a sorpresa degli attuali allievi dell’Accademia, che si sono uniti come coro dalla platea. Un momento ben costruito, efficace, accolto con entusiasmo e con una standing ovation.


Se l’obiettivo era offrire un concerto celebrativo, questo entusiasmo finale non basta a colmare il vuoto lasciato da una programmazione cambiata in corsa e da una proposta artistica che, pur ricca di impegno, è sembrata poco rifinita. Il futuro del Teatro Regio passa anche attraverso l’Accademia Verdiana: valorizzarne i talenti è doveroso, ma affidare a una classe di ex-allievi l’intera responsabilità di rappresentare una data così simbolica significa delegare a giovani interpreti un compito forse troppo gravoso, trasformando un’intenzione formativa in una responsabilità sproporzionata. Si rende forse opportuna, in tal merito, una riflessione.



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