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Il Barbiere di Siviglia • Petrou

  • Lorenzo Giovati
  • 3 mar
  • Tempo di lettura: 6 min

Parma, Teatro Regio. 1 Marzo 2025

Il Teatro Regio di Parma, dopo l’inaugurazione della sua stagione lirica con Giovanna d'Arco, alla cui recensione si rinvia, ha compiuto la scelta di inserire in cartellone, per il secondo anno consecutivo, Il barbiere di Siviglia, capolavoro di Gioachino Rossini. Il Teatro non si è però limitato a riproporre il medesimo titolo, ma ha anche riproposto il medesimo allestimento dell’anno 2024, (e anche in quell'occasione era una ripresa del Rossini Opera Festival di Pesaro del 2018), compiendo una scelta molto conservativa, che qualche perplessità ha legittimamente destato. I limiti di tale scelta si sarebbero però risolti, a fronte dell’indubbia godibilità della partitura rossiniana, se la proposta fosse stata artisticamente e teatralmente adeguata. La bella musica, infatti, si ascolta sempre volentieri, anche se già la si è ascoltata l’anno prima, a patto però che sia eseguita bene e che sia inserita in un’operazione teatrale che possa risultare interessante.

Vi è, però, che entrambe queste condizioni alla prima esecuzione sono mancate.


In primis la messa in scena e dalla regia del maestro Pier Luigi Pizzi, la quale è stata riproposta senza alcuna variazione, immutata persino in quella gestualità scenica che già lo scorso anno aveva destato perplessità, essendo apparsa poco divertente, e che pertanto, in sede di riproposizione, poteva almeno essere resa più lieve e più genuinamente spiritosa. Non vi è dubbio  che la realizzazione scenica pensata dal maestro Pizzi si faccia ancor oggi apprezzare per l’eleganza delle forme, delle prospettive e delle tinte. Nemmeno però vi è dubbio che essa sia comunque esposta alla regola ferrea del tempo che passa, giusta la quale gli anni, anche se sono portati bene, si vedono comunque, lasciando essi il loro inesorabile segno.


I limiti dell’esecuzione sono parsi evidenti già dall’overture, in cui, da un lato, il maestro Petrou ha staccato tempi rapidi, ma, al tempo stesso, ha anche palesato l’incapacità, poi confermatasi nella restante parte dell’opera,  di rendere, attraverso la leggerezza del suono, l’ironia sottile, ma anche irriverente, che permea la musica del Rossini giocoso e che ne costituisce un irrinunciabile tratto distintivo, tanto difficile da realizzare, come dimostrano i grandi interpreti rossiniani, quanto però ineludibile. Il maestro George Petrou, esperto del repertorio barocco, ha certamente affrontato la partitura rossiniana con un’energia apprezzabile, offrendone una lettura tendenzialmente vivace e dimostrando a tratti una buona tenuta dell’insieme (non però nel finale dell’atto primo, in cui la pagina d’assieme conclusiva è risultata caotica). Tuttavia, nelle parti meno animate, la direzione ha mostrato la tendenza a perdere mordente, ripiegandosi su sé stessa e diventando a tratti monotona. In alcuni momenti, inoltre, la direzione è sembrata anche troppo rapida, così da creare qualche scollamento con il palcoscenico, come, in altri momenti, essa è parsa consentire un volume sonoro eccessivo, sovrastando le voci, che già facevano sufficiente fatica per conto loro. Vi è stata poi la scelta di introdurre in buca una serie di strumenti a percussione (tamburelli, nacchere, piatti, timpani e grancassa), soluzione adottata anche da alcuni direttori del passato, come Neville Marriner (che però non ha utilizzato le nacchere durante il secondo finale), sebbene altri, come Claudio Abbado, abbiano optato per un'orchestrazione più asciutta. Pur trattandosi di una scelta interpretativa legittima e già sperimentata, l’esito è parso in questo caso eccessivamente rumoroso e chiassoso, non del tutto in linea con la raffinata brillantezza della scrittura rossiniana, che riesce a evocare perfettamente un temporale senza bisogno di un eccesso percussivo. L'equilibrio timbrico e la sottigliezza di certe storiche interpretazioni dimostrano infatti come Rossini sappia essere incisivo senza forzature sonore. Un'altra scelta discutibile intrapresa, si pensa, per la creazione un maldestro effetto "comico", è stata quella di trasformare il ritornello della serenata del Conte Almaviva "Se il mio nome saper voi bramate" in una sorta di tango. Altra perplessità, infine, ha destato la modesta cura dei recitativi, che spesso, per non scrivere sempre, sono stati scanditi dai cantanti in modo inelegante e approssimativo, con l’esito di disperdere il patrimonio di soluzioni divertenti di cui la partitura è disseminata.


Sotto la guida interlocutoria del maestro Petrou, l'Orchestra Senzaspine di Bologna non è riuscita ad esprimersi in modo apprezzabile. Nonostante una discreta coesione nella sezione degli archi, i fiati sono apparsi nel complesso poco precisi e talvolta slegati dal resto dell’ensemble. Particolarmente problematica è stata la sezione delle trombe, molto in difficoltà nella gestione del suono e nel controllo del volume. Non più brillante è stata anche la sezione delle percussioni, il cui suono è sembrato a tratti sordo. A ciò si sono aggiunte varie carenze di intonazione e diverse imprecisioni esecutive, che hanno contribuito a delineare una prestazione nel complesso molto migliorabile.


Anche sul piano delle voci i limiti non sono mancati.

Nel ruolo del protagonista, a causa di un’indisponibilità del baritono inizialmente previsto (Davide Luciano), la direzione del Teatro ha compiuto la scelta, indubbiamente coraggiosa, e per questo apprezzabile, di far scendere in palcoscenico il giovane Matteo Mancini, il quale ha lasciato intravedere di possedere le qualità artistiche e canore giuste per poter aspirare, se sarà capace di coltivarle adeguatamente, ad una promettente carriera. Mancini ha indubbiamente saputo imporsi con una presenza scenica istrionica e un'interpretazione vivace, disinvolta e ben caratterizzata. Allegro e attento a rendere il personaggio con naturalezza, Mancini ha dimostrato una buona padronanza del palco. Vocalmente, la sua voce è ben timbrata e omogenea, e quindi capace di conferire al personaggio la giusta brillantezza. Tuttavia, l’interprete è parso ancora poco maturo e, proprio perché tale, non in grado di sorreggere, con la sua personalità, uno spettacolo che ha presentato, per altri versi, diffuse vulnerabilità. Nel registro acuto, inoltre, non è sempre apparso spontaneo e l’agilità, fondamentale in un ruolo come quello di Figaro, non è stata a tratti fluida. Una prestazione che comunque può considerarsi apprezzabile e interessante.  


Al suo fianco anche la Rosina dell’affermato mezzosoprano Maria Kataeva è apparsa complessivamente abbastanza credibile, non fosse altro perché sostenuta da un’esperienza che ha permesso all’artista di affrontare il ruolo con una relativa sicurezza. La sua voce, dal registro mediano fermo e dal timbro sufficientemente gradevole, ha conferito alla giovane pupilla di Don Bartolo un carattere abbastanza ben delineato, tra spensieratezza, arguzia e una lieve altezzosità. Rispetto alla scorsa stagione, in cui aveva già interpretato questo ruolo nella stessa produzione, l’artista ha forse affinato alcuni dettagli interpretativi, lavorando su una maggiore varietà di sfumature. Tuttavia, la linea di canto, nulla più che corretta, non è sempre risultata omogenea, e nei passaggi di agilità ha mostrato qualche rigidità, soprattutto nelle colorature più serrate e nel registro acuto.


Decisamente sfocato è invece risultato il Conte d’Almaviva di Ruzil Gatin, che non ha saputo rendere il ruolo con l’eleganza e la duttilità necessarie. La sua voce, dal timbro chiaro ma dalla pasta non particolarmente suadente, è parsa priva di una linea di canto sufficiente. Non si pretendeva un Conte di Almaviva perfettamente sfaccettato, ma almeno un personaggio credibile nella sua fisiologica nobiltà. Il suo canto, che non è riuscito a nascondere evidenti difficoltà, si è rivelato a tratti stentoreo, e comunque sempre privo della morbidezza che è richiesta dalla scrittura rossiniana. Anche sul piano interpretativo, la lettura del personaggio offerta dal cantante russo non si è distinta per cura.


Non particolarmente convincente è stato anche il Don Basilio di Grigory Shkarupa, la cui interpretazione ha evidenziato le difficoltà insite nel canto buffo rossiniano: un equilibrio sottile tra vivacità espressiva e rigore stilistico che, se non ben calibrato, rischia di scivolare nel grottesco o, al contrario, di risultare incolore. Il basso russo, che dispone di una voce non profonda, ha così faticato non poco a rendere il personaggio con il giusto peso vocale. L’aria La calunnia è un venticello, che richiede un’esecuzione calibrata è stata eseguita con qualche difficoltà, soprattutto nelle note acute, dove la voce ha mostrato segni di affaticamento. La sua interpretazione, pur corretta, non è però riuscita ad imprimere il giusto carattere teatrale al ruolo, risultando nel complesso poco incisiva.


Si è fatto invece apprezzare, ed era ampiamente prevedibile, l'ottimo mestiere di Carlo Lepore nei panni del Dottor Bartolo, un ruolo che affronta con scioltezza, con simpatia e con una spiccata capacità di gestione del fraseggio. La sua esperienza ha permesso al basso napoletano di restituire un personaggio vivido e ben caratterizzato, che ha giocato con ironia (l’unico in scena a farlo) sulla fisionomia comica del personaggio, senza però mai scadere nell’eccesso. La dizione chiara e la brillante articolazione della parola hanno reso la sua interpretazione la più riuscita della serata.


Anche Licia Piermatteo, già nel cast della produzione dell’anno 2024, si è confermata una Berta efficace, capace di strappare sorrisi al pubblico con una gestualità ben calibrata e una spiccata verve scenica. La sua aria del secondo atto è stata eseguita con sicurezza e con disinvoltura.


Corretta è stata anche la prestazione di Gianluca Failla nei panni di Fiorello e di un Ufficiale.


Apprezzabilissima come sempre la prestazione dell'ottimo Coro del Teatro Regio di Parma, sempre preparato con cura dal maestro Martino Faggiani.


Nel complesso, pertanto, lo spettacolo ha avuto un esito molto interlocutorio, in quanto privo di quella sintesi tra direzione, canto e regia che sola può rendere un Barbiere di Siviglia davvero efficace e divertente. Ciò ha fatto sì che le prestazioni dei singoli artisti, già non prive di specifiche fragilità, non trovassero un valore aggiunto nella prestazione collettiva, perdendosi anzi in un insieme frammentato, privo di una sua identità. Alla fine, comunque, non sono mancati gli scroscianti applausi del pubblico. Di quegli applausi che oggi, nel Teatro di Parma, come in molti altri Teatri, non si negano più a nessuno. E, sia consentito scriverlo, non è un bene. Uno spettacolo che, semplicemente, non è riuscito.



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