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Salome • Soddy

  • Lorenzo Giovati
  • 30 apr
  • Tempo di lettura: 5 min

Firenze, Teatro del Maggio. 27 Aprile 2025.

La rassegna dell'87º Festival del Maggio Musicale Fiorentino si è aperta con l'interessante proposta di Salome, capolavoro di Richard Strauss, tratto dall'omonimo dramma di Oscar Wilde. Opera di un solo atto, Salome rappresenta una delle vette del teatro novecentesco per complessità orchestrale e per tensione drammatica.


Al centro della partitura vi è un continuo gioco di rifrazioni timbriche e di allusioni psicologiche, che richiede al direttore un controllo assoluto dell’impasto sonoro e una visione teatrale chiara. Alexander Soddy, giovane talento in ascesa, che vanta collaborazioni artistiche con grandi direttori del calibro di Kirill Petrenko e di Simone Young, ha affrontato la sfida con intelligenza e ispirazione. La sua lettura si è rivelata affascinante e molto matura: in un’opera tanto complicata, il rischio maggiore era appiattirne la tensione drammatica, rendendola monocorde e priva di sviluppo. Soddy è invece riuscito a mantenere viva la pulsazione interna della partitura, lavorando con attenzione sulle sfumature dinamiche e sulle transizioni armoniche, riuscendo a far emergere, ora l’aspetto più viscerale e inquieto, ora quello più languido e seducente. Il risultato è stato un flusso sonoro compatto, ma mai oppressivo, che ha lasciato spazio ai cantanti per costruire i loro personaggi. La tensione, ben calibrata, si è mantenuta costante fino al vertice finale della Danza dei sette veli (anche se questa ha presentato un leggero scollamento e un attacco poco nitido) e del monologo conclusivo, restituendo tutta la potenza perturbante di un’opera che, a oltre un secolo dalla prima rappresentazione, non ha perso nulla della sua splendida crudezza. Le intenzioni interpretative del maestro hanno poi ricevuto una risposta adeguata da parte della compagine orchestrale, come di consueto eccellente per qualità del suono e compattezza. 


Strepitosa la prestazione dell’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, che ha affrontato la complessa partitura straussiana con straordinaria precisione, compattezza e tensione espressiva. L’ensemble si è dimostrato reattivo e partecipe, capace di alternare con naturalezza esplosioni sonore dirompenti a momenti di sottile rarefazione timbrica, restituendo tutta la ricchezza e l’ambiguità del linguaggio musicale di Strauss. Una prova d’eccellenza, all’altezza delle grandi compagini europee.


Giunta in extremis a sostituire una collega indisposta, Lidia Fridman ha debuttato al Teatro del Maggio nei complessi e sfaccettati panni della principessa Salome. Un compito tutt’altro che agevole, che la cantante ha affrontato con naturalezza, confermando sin dalle prime battute un’assoluta padronanza del personaggio, tanto sul piano vocale, quanto su quello scenico. La sua Salome è apparsa sin da subito una figura tormentata, ambigua, profondamente inquieta, ma anche pervasa da una sensualità ostinata, quasi aggressiva, che si è espressa, non solo attraverso una presenza scenica magnetica, ma anche grazie all’eleganza di una silhouette teatrale efficacemente valorizzata da uno splendido abito rosso. Dal punto di vista vocale, la Fridman ha offerto una prova di straordinaria versatilità. Il timbro, corposo, ma flessibile, si è mantenuto sempre omogeneo lungo l’intera estensione, con acuti precisi, gravi pieni e rotondi, e una zona centrale di grande ricchezza espressiva. Ha colpito la capacità di modulare la voce in funzione dell’interlocutore e della situazione drammatica: più tagliente e mordace nel confronto con Jochanaan, più dolce e insinuante nei momenti di seduzione, più disperata e ossessiva nel lungo monologo finale. Non si tratta soltanto di una prestazione vocalmente impeccabile, ma di un’interpretazione completa, capace di restituire tutta la complessità psicologica di un personaggio che incarna al tempo stesso innocenza e perversione, desiderio e distruzione. In un ruolo tanto esigente, che ha messo alla prova le più grandi interpreti del Novecento, la Fridman ha saputo imprimere una cifra personale, riuscendo davvero a fare la differenza e conquistando con pieno merito il palcoscenico fiorentino.


Tra gli interpreti principali ha spiccato anche il Jochanaan di Brian Mulligan, figura ieratica e imponente, dotata di una vocalità vigorosa e autorevole. Il timbro brunito e ben proiettato ha conferito al profeta la necessaria solennità e ha saputo restituire con forza la spiritualità inflessibile e la tensione interiore del personaggio.


Di tutt’altro registro, ma altrettanto convincente, è stata la prova di Nikolai Schukoff nei panni di Herodes: una lettura teatralmente ispirata, costruita con una gamma di sfumature che hanno alternato il sarcasmo alla paranoia, l’avidità al grottesco. La voce, pur non particolarmente ricca, si è dimostrata ben adattabile alle esigenze del ruolo, con una dizione incisiva e una presenza scenica molto controllata.


Particolarmente incisiva è stata anche la prova di Anna Maria Chiuri nei panni di Herodias, figura che l’artista ha saputo tratteggiare con una miscela perfettamente dosata di autorità e controllo scenico. La sua interpretazione ha brillato per intelligenza teatrale e temperamento, con un fraseggio incisivo e sempre ben sostenuto da una vocalità solida, compatta, priva di incertezze. Il timbro caldo e scuro, unito a un’intonazione precisa e a una dizione nitida, ha conferito al personaggio una presenza regale e minacciosa al tempo stesso, evitando ogni eccesso.


Accanto a loro, efficace anche il Narraboth di Eric Fennell, dotato di un’emissione robusta e ben sostenuta, anche se talvolta incline a una certa rudezza nei passaggi più delicati.


Buona prova infine per Marvic Monreal nel ruolo del paggio, che ha saputo delineare con discrezione e sensibilità la sua figura, mettendo in mostra una voce ben educata e una presenza scenica partecipe.


Nei ruoli minori si sono segnalati Martin Piskorski (Terzo ebreo) per una vocalità particolarmente incisiva e Patrick Vogel (Quarto ebreo) per musicalità e precisione. William Hernandez ha reso con equilibrio il Primo Nazareno, mentre sono risultati pertinenti gli interventi di Frederic Jost (Erster Soldat) e Davide Sodini (Ein Kappadocier), entrambi funzionali all’equilibrio dell’ensemble.


A chiudere l’impianto di questo nuovo allestimento, la regia immaginifica e stratificata di Emma Dante, che ha saputo infondere alla vicenda una forza visiva potente e coerente, perfettamente in linea con il carattere visionario e morboso dell’opera. Come da cifra stilistica della regista siciliana, la scena è popolata da elementi naturali che trasformano lo spazio in un giardino chiuso, quasi edenico e al tempo stesso claustrofobico, allusivo di un mondo corrotto, dove il sacro e l’erotico convivono in un equilibrio inquieto. Di grande impatto la gigantesca faccia che funge da prigione per Jochanaan. La regia ha raggiunto uno dei suoi vertici proprio nell’ultima scena, di straordinaria potenza simbolica e visiva. Le pareti del giardino si sono tinte di sangue, mentre lo spazio scenico si è trasfigurato in un bosco inquietante, da cui sono scesi lentamente dal soffitto i capelli di Jochanaan, oggetto tanto idolatrato da Salome nel suo delirio amoroso.


La cura per i dettagli iconografici è stata evidente anche nei costumi, disegnati con raffinatezza e intelligenza. Particolarmente riusciti i costumi delle guardie, che hanno evocato con forza visiva i pupi siciliani. Di grande suggestione anche l’apparizione delle ballerine durante la Danza dei Sette Veli, vestite con abiti cangianti, quasi liquidi, che hanno accompagnato i movimenti scenici con sensualità e leggerezza, accentuando l’ambiguità e la forza perturbante del momento. Un impianto registico, dunque, che è riuscito a fondere simbolismo, teatralità e tensione narrativa in un linguaggio visivo molto interessante.


Questo nuovo allestimento di Salome al Maggio Musicale Fiorentino si è imposto quindi come una produzione di notevole spessore artistico, in cui ogni componente, dalla direzione musicale alla prova del cast, fino all’impianto registico e scenografico, concorre alla costruzione di un’esperienza teatrale intensa. È un segnale forte non tanto per il Festival, quanto per il Teatro del Maggio stesso dopo un periodo di grande incertezza e fragilità.


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