Castor et Pollux • Currentzis
- Lorenzo Giovati
- 3 set
- Tempo di lettura: 5 min
Salisburgo, Felsenreitschule. 29 Agosto 2025.
Dopo ben tredici recite all'Opera di Parigi, tutte sold out, Teodor Currentzis ha riportato in scena al Festival di Salisburgo Castor et Pollux, preziosa testimonianza operistica di Jean-Philippe Rameau. Un appuntamento, quello Salisburghese, che valeva in viaggio nella cittadina austriaca, per la una delle due rappresentazioni di un’opera, tanto inusuale, quanto bella, raffinata, anche se di non facile ascolto.
Teodor Currentzis ha proposto un’interpretazione che si è rivelata semplicemente unica. Il suo Rameau è stato spogliato di tutti quei suoni baroccheggianti e leziosi che troppo spesso appesantiscono questo repertorio, per dispiegarsi come un universo sonoro quasi mistico, sospeso, trasparente sino a sfiorare l’irreale. Nella prima parte dell’opera ha dominato un clima di rarefazione estrema, trattenuto, quasi nebuloso, che ha rallentato lo scorrere del tempo e ha guidato l’ascoltatore in una dimensione di pura contemplazione. Nella seconda parte, al contrario, la musica si è accesa, è diventata incandescente, ha preso vita in una danza irresistibile che è culminata in un finale di travolgente bellezza. Quella di Currentzis è una visione che spiega, senza lasciaredubbi, il perché di tredici sold-out consecutivi a Parigi: Currentzis non si è limitato a dirigere, ma ha reinventato l’opera stessa, dando corpo ad un Rameau autentico, ma anche trasportato nell’oggi, e restituendo la partitura con un’energia nuova, con un rigore filologico assoluto (basti pensare al rarissimo Prologo), che però non diventa mai sterile, e con una cura maniacale di ogni dettaglio: ogni frase, ogni cadenza, ogni respiro, ogni parola deicantanti e del coro, tutto è stato scolpito e trasfigurato. Currentzis si è confermato forse l’unico direttore oggi in attività che possa far vibrare Rameau di tale forza e di tale freschezza, evitando che l’opera risultasse algida, ma anzi trasformandola in una rivelazione; come si è confermato come un visionario, capace di ridisegnare, grazie al suo infinito talento, i confini stessi del teatro musicale. Un’esperienza irripetibile e destinata a restare nella memoria.
Questo miracolo sonoro non sarebbe però stato possibile senza i professori di Utopia, l’orchestra fondata dallo stesso Currentzis: una compagine che sembra farsi strumento della mente dei suo fondatore, capace di cambiare pelle a seconda del repertorio. Dopo aver affrontato Mahler con una massa sonora imponente, qui l’orchestra ha saputo rigenerarsi, piegando il proprio suono fino a renderlo impalpabile, scattante, di un’eleganza quasi eterea. È stata la dimostrazione di un’elasticità e di un’intelligenza musicale rara: archi sottilissimi e taglienti, di una perfezione cristallina; fiati che hanno cesellato timbri cangianti, con i flauti in grado di squarciare l’aria per freschezza e per leggerezza; percussioni calibrate con precisione assoluta, mai invadenti, ma sempre presenti con forza espressiva. Ogni sezione ha brillato come un’entità autonoma, eppure perfettamente integrata in un disegno collettivo. Utopia non è soltanto un’orchestra, ma è un laboratorio di perfezione, una voce che si unisce a quella del suo fondatore per dare vita a un’unica creatura musicale. Con Utopia e Currentzis l’uso della parola perfezione assume un preciso senso concreto.
Non meno straordinario è stato l’Utopia Choir, che ha saputo danzare con la musica, mantenendo sempre una compattezza e una disciplina assolute. Nella prima parte dell’opera Currentzis ha saputo scolpire pianissimi irreali, filati sottilissimi che sembravano dissolversi nell’aria, mentre nella seconda parte il coro ha sprigionato energia e vigore, con una forza trascinante. La sezione femminile si è distinta per la luminosità e l’omogeneità del timbro, quella maschile per la solidità e l’autorevolezza, insieme capaci di creare una tavolozza di colori corali di straordinaria raffinatezza.
La proposta è stata arricchita da un semistage di Peter Sellars che, è il caso di dirlo non in termine spregiativo, ha "arredato" il palco della Felsenreitschule con mobilio moderno e un fondale, ora di immagini urbane (terrene), ora di immagini spaziali (ultraterrene). Un modo sobrio, ma interessante, per rendere la storia di Castor et Pollux universale, attribuendole un senso che si coglie alla fine,quando tutti si ritrovano nella casa a divertirsi e a festeggiare la risoluzione delle tensioni tra mortalità e immortalità, tra dimensione umana terrena e dimensione umana spirituale.
In scena è poi salito un cast vocale, scelto con straordinaria appropriatezza.
Jeanine De Bique ha impersonato Télaïre, domandole una vocalità sorprendente, capace di sostenere un filo di voce privo di vibrato, senza il minimo cedimento o la minima oscillazione. L’intonazione è sempre stata impeccabile, il controllodell’emissione assoluto, la tecnica solidissima. L’aria del primo atto ha letteralmente lasciato senza parole la sala: un canto sottovoce, rarefatto, ma di una perfezione rara. A ciò si è aggiuntoun legato morbidissimo, dei filati tenuti sul respiro con naturalezza e una dizione francese nitida, che hanno reso il recitativo scolpito. Una musicalità di livello esemplare, che ha fatto di Télaïre una figura fragile e insieme eroica, di struggente intensità.
Non da meno è stata Yulia Vakula come Phébé, che ha sfoggiato una voce dal colore ambrato e dal timbro vellutato, ma allo stesso tempo potente e avvolgente. Il registro centrale, corposo e sonoro, si è fuso con acuti luminosi e mai metallici, proiettati con una sicurezza rimarchevole. La linea vocale è sempre rimastacompatta e levigata anche nei momenti di maggiore agitazione, quando l’artista ha mostrato agilità chiarissime e accenti scolpiti con eleganza, sempre in perfetta aderenza allo stile. Una Phébé magnetica, che ha dato alla vicenda un colore drammatico di grande rilievo.
Reinoud Van Mechelen è stato un Castor dalla vocalità stilisticamente e tecnicamente straordinaria. L’emissione da tenore è parsa cristallina, la salita al registro acuto naturale e sempre sostenuta da un appoggio saldo, il fraseggio elegante, i trilli puntuali, i gruppetti nitidi. Notevole è stato anche il controllo del fiato che gli ha consentito arcate lunghe e morbide.
Il Pollux di Marc Mauillon non gli è stato da meno. Timbro brunito e vellutato, centro autorevole, proiezione che ha riempitolo spazio senza forzare. La sua nobiltà fraterna è stata resa da un fraseggio generoso e da un controllo del tempo interno che ha dato rilievo ai ritorni danzanti della seconda parte. Perfetta è stata anche la fusione con Castor nelle scene d’insieme.
Claire Antoine nelle parti di Minerve e della servitrice di Hébé hanno convinto per eleganza e misura. La linea è sempre stata pulita, la dizione chiara, l'interpretazione in stile.
Natalia Smirnova è apparsa perfetta come Vénus e come ombra beata, cantando l’aria della seconda parte con voce squillante e controllata perfettamente nelle intonazioni. Il timbro è parso luminoso, gli acuti stabili, l’intonazione granitica anche nei fili più sottili. La sua eleganza è restata costante, con una bellezza di suono che non rinuncia alla chiarezza della parola.
Nicholas Newton nei ruoli di Mars e Jupiter, oltre che come atleta, è risultato nobile, austero e perciò correttissimo. Un Sarastro ante litteram. Voce ampia, autorevole, con un registro mediano sonoro e un’emissione ben tornita che ha restituito maestà senza pesantezze.
Laurence Kilsby come L’Amour, sommo sacerdote di Jupiter e atleta, è stato bravissimo. La linea è parsa nobile e tersa, la purezza dell’intonazione colpisce, il gusto negli abbellimenti sobrio e sempre a servizio della scena.
In chiusura, una nota che ribadisce quanto già è evidente: il lavoro del maestro Currentzis con Utopia tocca vertici che raramente si ascoltano. Gli archi hanno scolpito articolazioni di una precisione assoluta, i legni hanno disegnato colori impalpabili, il continuo ha respirato con i cantanti come in una grande scena cameristica. Currentzis ha quindi reso questo Castor et Pollux non solo un successo, ma un riferimento universale ed eterno.
















